Fioretta Mazzei: una donna costruttrice di civiltà e di pace

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Fioretta Mazzei ha avuto un posto significativo nella storia fiorentina e italiana del laicato cattolico del Novecento. Impegnata nelle istituzioni comunali per quasi un cinquantennio, ha amato e perseguito il nascondimento della vita claustrale, vissuta da consacrata laica nella cella della sua interiorità. Con Giorgio La Pira ha stabilito un’amicizia spirituale e politica per la vita che ha reso Firenze terrazza di pace sul mondo.

Ricordare gli “uomini illustri” rischia spesso la retorica, enfatizzando le loro gesta e ponendoli di fatto lontano dalla nostra esperienza e dalle nostre possibilità, irraggiungibili. Eppure, ci sono persone come Fioretta Mazzei (1923-1998) che hanno saputo vivere la quotidianità più semplice e accessibile insieme a un’esperienza religiosa altissima quanto discreta e a un’attività politica importante svolta per decenni nella nostra Firenze, davvero al servizio disinteressato della sua gente.

Nasce a Firenze il 26 settembre 1923, in una famiglia di antica nobiltà di stampo “piagnone”, cioè savonaroliano. Il padre Jacopo, economista, era discepolo e amico di don Giulio Facibeni, un santo sacerdote fiorentino (di cui è in corso la causa di beatificazione). In casa Mazzei approdava anche, fin dagli anni Trenta del Novecento, Giorgio La Pira (1904- 1977), per il quale Jacopo Mazzei nutriva grande stima. Fin da bambina Fioretta poté dunque osservare con occhio attento e cuore aperto alcuni degli esempi più alti e significativi della Firenze cattolica del tempo.

Nel 1943, con l’occupazione nazista, Giorgio La Pira è costretto ad allontanarsi da Firenze per sfuggire all’arresto e trova rifugio e protezione dall’amico Jacopo, a Fonterutoli nel Chianti senese, nella sua villa di campagna. Fioretta ha venti anni tondi, La Pira trentanove. In quei tre mesi di clandestinità (dai primi di settembre a dicembre) La Pira e Fioretta hanno modo di pregare con tutta la famiglia, ma anche di conversare a lungo sull’amore di cui Dio li ha ricolmati, sul modo di corrispondervi, di compiere la sua volontà non solo sul piano personale ma anche sociale e pubblico: il tutto alla luce della Summa di san Tommaso d’Aquino e di quella concreta esperienza di fede e di cristiana carità che era la Santa Messa dei poveri, intrapresa da La Pira nel 1934, alla quale anche Fioretta partecipava fra i giovani collaboratori del Professore a partire dal 1942. I mesi di frequentazione del 1943 resteranno, per entrambi, indelebili nelle loro esistenze, perché segnarono anche il momento rivelatore di un rapporto di amicizia spirituale e di una consapevole alleanza nella preghiera e, in seguito, nell’impegno sociale e politico, destinata a non più interrompersi. Un sodalizio che rese Firenze, per almeno un ventennio, una vera terrazza mondiale di civiltà e di pace. Da quella esperienza di comunione spirituale e dal successivo distacco, perché il rifugio di Fonterutoli non era più sicuro e La Pira dovette riparare a Roma, scaturisce un luminoso epistolario spirituale fra i due che si protrarrà fino al 1957, recentemente pubblicato1.

Tuttavia gli eventi bellici e la sua salute cagionevole determinano per Fioretta una lunga solitudine: negli anni Quaranta vive prevalentemente a Fonterutoli e quel minuscolo borgo diventa per lei, nel sostanziale isolamento cui è costretta, il luogo dell’anima e insieme della carità. La sua giornata è scandita dalla preghiera del mattino, la messa e le ore di meditazione nella chiesetta del borgo. Ma il pomeriggio è per le visite ai malati e per i bambini e i ragazzi ai quali si dedica con assiduità, curandone l’istruzione religiosa e scolastica in una prospettiva educativa dell’intera personalità che sarà la sua connotazione peculiare di tutta la vita. Il suo impegno educativo prosegue, a guerra appena conclusa, nel suo rione di San Frediano che, come gli altri quartieri popolari, pativa la fame, la miseria della disoccupazione insieme a quel profondo bisogno immateriale dato dall’ignoranza religiosa e culturale. Fioretta radunò attorno a sé alcune amiche e cominciò a prendersi cura dei bambini di strada, a sfamarli, alfabetizzarli, sostenerli nei loro percorsi scolastici e, una volta cresciuti, nella ricerca del lavoro: centinaia di ragazzi e ragazze nel corso degli anni, insomma la costruzione di un popolo consapevole.

Nel 1947 Fioretta Mazzei si consacra privatamente a Dio nel triplice voto di povertà, castità e obbedienza, decidendo di restare nel mondo per portare il mondo a Dio. Fin da bambina Fioretta era oggetto di un’attenzione speciale da parte del Signore come, con estremo pudore, en passant, accenna lei stessa nei suoi Diari spirituali, parzialmente pubblicati2. E il giovane professore di Diritto romano si era ben presto accorto che in quella ragazzina traspariva una luce di Cielo, come scrive alla nonna di lei3.

Quando La Pira, nel 1951, viene candidato a sindaco di Firenze dalla Democrazia cristiana, “costringe” con decisione anche Fioretta Mazzei a candidarsi, e così lei, a 28 anni, entra nel consiglio comunale e sarà quasi consecutivamente rieletta per quasi 45 anni fino al 1995: un vero record che testimonia la fiducia dei fiorentini nei suoi confronti. Nel corso dei decenni ricopre molti ruoli nell’amministrazione comunale: assessore alla pubblica istruzione, alla cultura e relazioni internazionali, alla sicurezza sociale; ma tutto questo non le impedisce, anzi rafforza la sua determinazione di stare in mezzo alla “sua” gente: le ragazze delle scuole superiori, dove insegna Religione e Francese senza interruzione nonostante gli impegni politici di amministratrice; instaurando con loro un magistero di cultura e di vita che cambierà le prospettive di moltissime di loro, poi diventate spose e madri di famiglie solide, donne inserite nella società. Alla gente del quartiere popolare di San Frediano, nel quale viveva, alle famiglie e alla povera gente fiorentina dedicò tutta se stessa: «Io difendo i deboli – disse una volta – perché i forti si difendono anche da soli». Ma sarebbe davvero difficile comprendere una personalità come la sua senza entrare nel suo quotidiano, in quell’autentico cenacolo che era la sua casa: porto di mare sempre aperto per gli amici di qualunque tipo: le sue alunne, la gente di San Frediano, le famiglie e le mamme in difficoltà, la cura dei bambini, prima e dopo la nascita; gli amici sacerdoti, la povera gente dell’albergo popolare, le ragazze di Nomadelfia, artisti, prelati, politici, astronomi: l’elenco non finirebbe più. Di primo acchito si potrebbe supporre il caos, data l’eterogeneità dei soggetti; e invece “il placido lago”, come ella stessa definì la sua interiorità, dominava senza parere e anche senza volere, quella superficie tanto mossa e variegata. Tutti subivano il fascino della sua anima forte e poliedrica ma pacificata nell’unico Amore increato, il Figlio di Dio.

La traversata nel tempo del deserto

Quando La Pira fu estromesso dal governo fiorentino, nel 1965, Fioretta rifiutò di ricandidarsi perché ciò significava per lei anche il disconoscimento di una politica comune a entrambi. Ma ben presto, da parte di La Pira e di quella ampia rete di amici e di relazioni che ne riconoscono il valore, si comincia a spingere Fioretta perché accetti di nuovo una candidatura nelle fila democristiane e torni in Palazzo Vecchio a servire e difendere la sua gente. Si profila così un nuovo impegno negli anni Settanta come assessore alla cultura, alla gioventù e alle relazioni internazionali: un inedito nel lessico e nelle funzioni politiche del tempo. Fioretta riapre Firenze al mondo, con memorabili iniziative culturali e privilegiando l’aspetto più decisivo e a lei congeniale: quello del coinvolgimento delle giovani generazioni in una storia di civiltà, quella fiorentina, che ha saputo esprimere ai massimi livelli i “valori di vertice” di Dio.

Ma lo spirito del tempo volgeva in altra direzione: la prospera società italiana di allora ha in gran parte abbandonato la lettura provvidenziale della storia per abbracciare una prospettiva di sostanziale relativismo materialista, sordo al richiamo della millenaria ricchezza di umanesimo cristiano e di civiltà della sua gente. Gli anni Settanta sono, per antonomasia, il decennio delle fratture, delle faglie incise nel tessuto vivo della nostra civiltà, che tagliano trasversalmente tutti gli ambienti, anche per lo storico avanzamento, gestito da élites ristrettissime, di quel processo di integrazione europea di cui forse soltanto oggi siamo in grado di cogliere tutte le potenzialità inespresse o tradite. Una deriva che Fioretta coglie in profondità col suo disarmante, politicamente scorrettissimo anticonformismo, con lo sguardo intuitivo della sua libertà cristiana: «Prima – scrive in una nota di diario l’11 ottobre 1976 – era la festa della Maternità di Maria. Ora niente. Lo scrivo con malinconia perché è proprio di ieri il decreto di annullamento delle feste, quelle grosse: Ognissanti, Corpus Domini, Ascensione. Ne ho tristezza perché penso che è un’ulteriore laicizzazione, che poi riesce sempre ad intristirci, nient’altro. Essere laici ed essere tristi ecco il tutto. La festa è il retaggio dell’uomo in grazia, dell’uomo contento. La festa è, nella sua essenza, un’espressione religiosa»4.

In questo senso le leggi sul divorzio e sull’aborto segnano uno spartiacque anche simbolico, una ferita non rimarginata nella società e nella Chiesa italiana. Giorgio La Pira e Fioretta Mazzei si batterono con grande vigore e convinzione contro entrambe quelle leggi ritenendole, anche sul piano civile ed educativo, profondamente inique5 . Un decennio duro, quello degli anni Settanta, per Fioretta Mazzei, anche sul piano personale (la morte della madre nel 1972 e quella di La Pira nel 1977) ma intensissimo e costruttivo. L’eredità di La Pira è enorme e lei d’ora in poi ne è l’erede politica e interprete autorevole e riconosciuta ma anche creativa e libera. Nel 1978 Fioretta dà vita alla Fondazione La Pira, di cui sarà presidente fino alla morte, e in questa veste continua a girare in lungo e in largo l’Italia, chiamata e cercata ovunque. E insieme, come consigliere d’opposizione, non cessa di occuparsi di Firenze a cominciare dalla difesa dei poveri.

Così nel 1983, per un repentino cambio di maggioranza, fu ancora assessore stavolta alla Sicurezza sociale: arrivò appena in tempo per bloccare la chiusura dell’Albergo popolare, già decisa dalla precedente giunta social-comunista, procedendo invece alla sua riqualificazione. L’operazione, per la verità, non venne molto apprezzata ma Fioretta tirò dritto e l’albergo popolare o, per dir meglio, i poveri che vi trovarono ancora un tetto, furono salvi.

In modo analogo salvò il brunelleschiano Istituto degli Innocenti dalla chiusura della sua storica destinazione per i bambini abbandonati, voluta dalla Signoria medicea nel Quattrocento: Fioretta, con la collaborazione del governo italiano, portò agli Innocenti la sezione nazionale dell’Unicef e, nel 1984, con un importante convegno internazionale, fece giungere alle Nazioni Unite la proposta di Firenze per la revisione della Convenzione Internazionale dei diritti dell’Infanzia. Si apre allora per Fioretta Mazzei l’ultima e intensa fase del suo impegno politico: la battaglia per Firenze.

La bellezza di Firenze, specchio e prefigurazione della Gerusalemme celeste

A Firenze dagli anni Ottanta si afferma un’idea di città come mero agglomerato urbano, formato da funzioni e cubature di cui di sporre a piacimento, senza considerazione per la storia che ha definito il volto della città e del suo popolo, che ha esigenze e diritti naturali e civili da salvaguardare. Firenze presenta dinamiche delicate, si impone l’esigenza di un riordino delle sue funzioni e c’è uno “spirito del tempo” di cui fa parte il termine “decentramento”. Si sostiene che il centro storico è sovraffollato di funzioni, in particolare quella giudiziaria, per la quale si individua un settore, a nord-ovest della città, come il più adatto per riunire tutte le funzioni giudiziarie in un unico contenitore, la mega-struttura del palazzo di giustizia. Viene scelto un progetto di mole gigantesca, che cozza vistosamente con lo stile, i valori architettonici, lo skyline stesso della città.

Tutti plaudono, ma Fioretta è indignata per un progetto così apertamente in contrasto con i valori estetici e spirituali di Firenze. La sua opposizione è durissima ma isolata da tutti gli ambienti politici, compreso il suo. Lottò come sapeva fare lei, con determinazione, lucidità e coraggio, ma vanamente. Lo stesso accadde per il Nuovo Pignone, la storica fabbrica fiorentina salvata da Mattei e La Pira, e divenuta nel corso degli anni un’azienda strategica dell’industria italiana, all’avanguardia per le competenze umane e le tecnologie, anche grazie al quale per decenni l’Italia aveva potuto esercitare un ruolo di primo piano nella politica internazionale in favore della pace. In piena tempesta di tangentopoli, quando il grido giustizialista servì anche per smantellare l’esperienza politica dei cattolici, Fioretta Mazzei alzò forte la sua voce: difese l’italianità del Pignone, difese, ancora una volta in solitudine, il progetto complessivo di paese di cui quell’azienda era divenuta il simbolo nel corso dei decenni.

Ed eccoci, finalmente, alla parola-chiave della sua esistenza di donna e di cristiana: la pace di Cristo, annunzio di una risurrezione non solo individuale, ma anche storica e cosmica, che deve estendersi a ogni cosa. Il sigillo per eccellenza: «Guarda – mi disse un giorno – per me la cosa fondamentale è la pace, il resto viene dopo». Ma la pace è una risultante e richiede lavoro per essere conseguita, anche se mai stabilmente. Così, dopo la caduta del muro di Berlino, Fioretta resta inquieta, non vede la tanto conclamata “fine della storia”, al contrario assiste preoccupata al profilarsi di altre guerre. Nel 1990 la nuova maggioranza di Palazzo Vecchio, in cui era rientrata la Dc, istituisce una Commissione consiliare appositamente pensata per lei, la Commissione per la pace, e Fioretta in questa veste si oppone alla prima guerra in Iraq e alle politiche belliciste che si accompagnano naturalmente al riarmo con la conseguente modificazione degli assetti economici e produttivi. Come presidente della Commissione per la pace promuove il gemellaggio tra Firenze, città dell’Annunziata, e Nazaret, città dell’Annunciazione: segno di predilezione rivolto a Maria e insieme la rivelazione più profonda dell’anima sua, tutta protesa al silenzio, al nascondimento, in un’umiltà altissima e di disarmante semplicità.

Infine, l’ultimo estremo pensiero, è ancora per lei, per la sua città, di cui era perdutamente innamorata. A pochi giorni dalla morte detta uno splendido messaggio sulla bellezza di Firenze, riflesso della Grazia, che riassumeva in immagini di luce teologale le lotte dei suoi ultimi anni perché non ne fosse stravolto il suo vero volto cristiano e umano.

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Antologia

La bellezza in realtà è l’apice della situazione umana, tant’è vero che si usa dire che l’atto massimo dell’uomo è la contemplazione, cioè la visione di un qualche cosa di gran lunga superiore a quello che abbiamo intorno. La Pira mi raccontava che a 15-16 anni, ascoltando cantare le suore del convento di Maria a Messina, aveva avuto l’impressione che esistevano delle bellezze straordinarie che superavano qualunque aspettativa e ci potevano essere concesse. È la preghiera che genera la bellezza e la poesia. Infatti La Pira scelse per il secondo Convegno per la pace e civiltà cristiana (1953) proprio il tema “Preghiera e poesia”. Quanti uomini seguaci delle ideologie hanno speso la vita nelle lotte, nelle rivoluzioni e nelle guerre, per “cambiare la società”! È solo la bellezza che trasforma una società. Domandiamoci cosa sarebbe Firenze senza la cupola, senza Palazzo Vecchio, senza questa simmetria anche interna che collega il granaio (Orsanmichele) alle più alte espressioni civili e religiose.

Abbiate pazienza ma non posso di più, posso solo dirvi che Firenze e la sua poesia mi vive nel cuore ed è in questi giorni uno dei motivi delle mie consolazioni, perché mi richiama visivamente alla fede grandiosa dei nostri padri: con la cupola e il suo architetto e gli immensi valori civili e umani che Palazzo Vecchio, con la sua torre arcigna, in cui convivono però i merli guelfi e ghibellini, ci indica come i più alti. Se si leva tutto questo Firenze o non esiste o non ha alcun valore. Nel suo discorso di Ginevra (1954) La Pira ammonì: – Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Si tratta di beni a loro pervenuti dalle generazioni passate e rispetto ai quali esse hanno la veste giuridica di eredi fiduciari.

La dominante di Firenze è la bellezza, la bellezza in un ordine, in una misura. Il segreto della bellezza è anche la misura e Firenze è una città misurata che sfugge le esagerazioni. Anche il barocco, che pure è pieno di effusioni, fa fatica qui, per paura dell’eccesso. E lo stesso manierismo del Rosso e del Pontormo sono una rimisurazione. Un altro aspetto della bellezza sta nel piccolo e non nel grande, quindi nell’armonia del piccolo. Una città può riflettere una bellezza addirittura superiore alla bellezza di un viso perché è una bellezza comunitaria, voluta da tutti, condivisa. E come perfino la bellezza naturale ha bisogno di essere accompagnata, scoperta, anche corretta dallo sguardo e dalla mano dell’uomo, così la bellezza cittadina ha bisogno di una partecipazione cittadina, di un occhio d’amore collettivo.

Il degrado di tante città è dovuto proprio a questo, alla non educazione, alla non comunità. La vita comunitaria riflette la vita del cielo con i suoi misteri che non sono solitari. L’arte poi è sinonimo di libertà, la bellezza conduce ed esige libertà. «I heard last night neath Casa Guidi’s windows by the church a little child go singing “O bella libertà! Oh bella!”» («Ho sentito stanotte, sotto le finestre di casa Guidi accanto alla chiesa, un bambinetto che passava cantando “O bella libertà! O bella!”») si legge sulla casa di Elisabeth Barrett Browning. Perché il nostro occhio sia capace in profondità di bellezza e di poesia ci vuole lo stesso atteggiamento interiore umile, semplice, costante. È vero che con i tempi il senso della bellezza può fare nuove scoperte, talvolta di grande semplificazione, però non può prescindere da una scelta in qualche modo comune, che ne dia anche la misura perché, nonostante tutto, camminiamo verso il massimo del semplice, dell’umile e del lineare: Dio è semplice. La corruzione e il denaro possono investire tutto, ma non è da questa analisi che ne usciamo, ma in un rinnovamento interiore al quale in fondo tutti aspiriamo e a cui non vogliamo rinunciare (Testamento per Firenze, in La mia storia sacra, cit., pp. 111-113).

Note

1 G. La Pira, F. Mazzei, Radicati nella Trinità. Carteggio 1943-1957, Polistampa, Firenze 2018.

2 F. Mazzei, La mia storia sacra, a cura di G. Carocci, Lev, Città del Vaticano 2004.

3 «Mi ricordi... alla sig.na Fioretta: - sono commosso nel vedere la grazia di Dio così visibilmente penetrare nell’anima pura di questa creatura: è un dono del Signore molto alto questa luce verginale che si lascia intravedere nella coscienza e che orienta verso il Cielo pensieri ed affetti» (Lettera di Giorgio La Pira a Marianna Mazzei, datata 15 luglio 1943, ivi, p. 31).

4 Ivi, p. 95.

5 In un celebre articolo, La Pira definì l’aborto come il discrimine tra la civiltà e la barbarie: G. La Pira, Di fronte all’aborto, in «L’Osservatore Romano», 19 marzo 1976.

PER APPROFONDIRE

F. Mazzei, La Pira, cose viste ed ascoltate, Lef, Firenze 1979.