Migrazioni ai margini

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Gli individui si sono sempre spostati alla ricerca di un ambiente propizio alla sopravvivenza o al miglioramento delle proprie condizioni di vita. La migrazione è pertanto al cuore dell’esperienza umana, come emerge nelle grandi narrazioni mitologiche e religiose: la migrazione si inserisce in un disegno divino, che consente di incontrare la propria umanità e quella degli altri, di cogliere il significato della propria esistenza e di intraprendere un percorso che avvicina al divino, grazie all’attraversamento di frontiere materiali e immateriali. Campese ci ricorda che «la Bibbia narra i percorsi migratori di un’umanità pellegrina [...] e di un Dio che [...] diventa migrante lo stesso per accompagnare [le migrazioni]».

Nel corso della storia, le migrazioni hanno contribuito alla costituzione dei sistemi socioeconomici, politici e culturali, un nesso che si è progressivamente globalizzato. Sono anche state influenzate dal contesto politico: ad esempio, la mondializzazione del modello di Stato-nazione, a partire dal XIX secolo, ha innescato i più importanti flussi di migrazioni forzate conosciuti; ha anche fatto evolvere la concezione della frontiera, diventata progressivamente una linea di separazione tra popoli che mira a filtrare la circolazione delle persone, in particolare i flussi di ingresso1 .

Il dossier mette in rilievo il rapporto, spesso ambivalente, tra migrazioni odierne e frontiere. Le migrazioni internazionali sono caratterizzate oggi da un’importante stratificazione sociale e da una forte asimmetria tra Nord e Sud del mondo. Le migrazioni e le circolazioni provenienti dai paesi del Nord si effettuano in modo relativamente fluido, all’interno di vasti spazi di libera circolazione, o nell’ambito di accordi che consentono l’esenzione da visti, mentre la maggior parte dei paesi del Sud globale sono esclusi da questi accordi. La possibilità di spostarsi liberamente da un paese all’altro costituisce ormai una delle principali linee di frattura a livello mondiale.

Questo dossier si concentrerà sulle migrazioni ai margini. Il termine margine deriva dal latino margo, marginis, ossia “bordo” o “confine”. Saranno esaminate le migrazioni negli spazi di confine, oltre lo sguardo mediatico; e ai margini, compresi quelli interni, delle società. Le politiche migratorie odierne generano in effetti una profonda marginalità per diverse categorie di migranti, che si intreccia con altre marginalità e le aggrava. In particolare, per quanto riguarda i migranti irregolari (o, più esattamente, “irregolarizzati”) e i profughi. Si (ri)pone pertanto la “condizione migrante” al centro della conoscenza e della coscienza cittadina, per evidenziare la “fabbrica” politica della marginalità migrante.

Tale emarginazione è innanzitutto geografica. Come analizza Wihtol de Wenden, dagli anni Ottanta le politiche migratorie attuate al Nord, su base statale o europea, sono state guidate da una volontà di containment nei confronti dei migranti provenienti dal Sud. Questo approccio si è accompagnato alla progressiva esternalizzazione del controllo dei flussi di ingresso, affidato ai paesi del Sud detti “Stati cerniera”. Prima immediatamente confinanti, i paesi coinvolti in questi accordi sono sempre più geograficamente distanti. Sono quindi i flussi di uscita che vengono impediti e criminalizzati dai paesi subcontraenti, in violazione del diritto internazionale. Così facendo, è la stessa frontiera stato-nazionale dei paesi del Nord che si trasforma e si sposta. L’emarginazione spaziale si manifesta anche con le politiche di espulsione e di respingimento del migrante irregolare. È in questi margini che avviene la maggior parte delle morti. Negli ultimi dieci anni, più di 63.000 migranti sono morti nel Mediterraneo, e decine di migliaia attraversando il Sahel e il Sahara. L’emarginazione spaziale si verifica infine all’interno dei territori di installazione o di transito. Lo comprovano la moltiplicazione dei centri di detenzione per i migranti irregolari, le politiche di “accampamento” per i profughi, l’ubicazione dei centri di accoglienza fuori dai centri urbani, la messa in quarantena delle navi di soccorso, o anche le “giungle” che si sviluppano ai margini, come a Calais o Trieste. Agier chiama questi luoghi degli hors lieux (“fuori luogo”), riprendendo la nozione di “eterotopia” formulata da Foucault. Detti luoghi, caratterizzati dall’ontologia della soglia o del margine, non sono soltanto «degli spazi dell’individuo atomizzato e/o abbandonato» ma «degli spazi del margine, del confine, degli spazi dell’entre-deux, in cui viene oggi riscritta la storia dello straniero». Sono caratterizzati da una certa extra-territorialità, «costituiti innanzitutto come dei fuori ubicati sui bordi o ai margini dell’ordine normale delle cose»2 .

L’emarginazione è temporale: i migranti sono estromessi dalla temporalità normale, nel limbo di un tempo sospeso. L’attesa si ritrova in numerose tappe e dimensioni dell’esperienza migratoria: nelle soste costrette, nei vari tentativi di attraversamento; nei campi profughi, come nel caso dei profughi palestinesi nei campi in Giordania, in attesa da settant’anni dell’illusoria attuazione del diritto di ritorno in patria, studiati da Al Husseini; nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR); per l’esame della richiesta di asilo, o in prefettura per le richieste di regolarizzazione o il rinnovo del permesso di soggiorno; sulle navi quarantena. La politica dell’attesa esprime la dominazione dello Stato sull’esistenza del migrante, come osserva Auyero, che parla di “pazienti dello Stato”.

L’emarginazione è sociale e giuridica, risultato di processi di criminalizzazione e alterizzazione del migrante, costruito come l’Altro assoluto. Poiché la frontiera stato-nazionale viene ormai concepita come la linea che protegge la comunità nazionale dall’“invasione migratoria”, il suo attraversamento diventa violazione, e il migrante un criminale. È così che dagli anni Ottanta le migrazioni sono state oggetto di un processo di securitization, narrate e gestite come una problematica di sicurezza prioritaria. Il migrante diventa minaccia: all’ordine pubblico, all’identità nazionale, alle finanze pubbliche... È reso capro espiatorio delle crisi che attraversano le società.

L’emarginazione del migrante viene attuata mediante la sorveglianza biometrica, palese manifestazione dell’intensificazione del biopotere dello Stato moderno3 . Alle frontiere stato-nazionali, a monte e all’interno dei confini, al migrante viene prelevata e controllata una miriade di dati non solo amministrativi ma anche biometrici per il suo riconoscimento. Questi dati, ottenuti e gestiti sempre di più dall’Intelligenza Artificiale, accelerano le decisioni prese nei confronti del migrante, che viene respinto o ammesso, deportato o considerato inespellibile, detenuto o autorizzato a circolare. Questo “scan-opticum” del migrante, come lo definisce Stenum, crea delle frontiere biometriche ovunque, in funzione della mobilità del migrante, e persino nel suo corpo. La detenzione e l’uso di questi dati sono caratterizzati dall’incertezza giuridica, e da un trattamento criminalizzante. Queiroz parla di un processo di “crimmigrazione” del migrante, di “illegalità digitale” che si colloca nella «fusione del trattamento dell’irregolarità, della richiesta di asilo e della criminalità», all’interno delle stesse procedure e database.

Risultato di questa emarginazione, la condizione migrante è sempre più precaria, esposta alla repressione, alla sofferenza e allo sfruttamento. Settori come l’agricoltura, l’industria tessile, l’edilizia, la ristorazione e il crescente “capitalismo di piattaforma digitale” reggono grazie a questa manodopera, fragile e fruibile, che Omizzolo paragona ad una “subumanità sperimentale” ridotta «a strumento nella disponibilità assoluta del datore di lavoro».

L’efficacia e la razionalità, se non elettorale, di tali politiche estremamente costose non sono corroborate dai fatti. La criminalità si nutre proprio della precarizzazione del migrante, che ne è la principale vittima. Inoltre, la presunta invasione migratoria da Sud a Nord non è confermata dai dati. Le migrazioni internazionali non sono caratterizzate da ondate massicce da Sud a Nord: la metà dei migranti nell’UE è europea, e la metà dei flussi migratori mondiali sono Sud-Sud, spesso circoscritti nelle immediate vicinanze dei luoghi di origine, mentre la percentuale dei migranti internazionali rimane relativamente stabile in questi ultimi decenni (intorno al 3% della popolazione mondiale). I flussi Sud-Sud, essenziali per le economie locali, vengono tra l’altro ostacolati dalle politiche di containment ed esternalizzazione attuate dai paesi del Nord, come analizza Brachet.

L’estrema politicizzazione della questione migratoria non consente un’efficace governance mondiale delle migrazioni. La convenzione di Ginevra per i profughi è stata considerevolmente indebolita, in particolare per quanto riguarda l’attuazione del principio fondamentale di non respingimento. Gli organismi dell’ONU incaricati della regolazione dei flussi e della protezione dei migranti e profughi sono fortemente dipendenti dagli orientamenti delle politiche migratorie degli Stati, che sono tra l’altro i principali finanziatori. Di conseguenza, l’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), e ancor di più l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA), sono in situazione di crisi strutturale di finanziamento, che non consente loro di far fronte all’aumento dei bisogni.

I migranti emarginati non sono tuttavia soggetti passivi: hanno dimostrato la loro capacità di sviluppare legami di solidarietà all’interno e al di fuori del margine, e di aggirare o resistere alle norme e condizioni che vengono loro imposte. In molti si sono organizzati per lottare per i loro diritti, come i sindacati dei migranti dell’agro-industria italiana, i collettivi di sans-papiers in Francia, o i rifugiati palestinesi nei campi profughi. Inoltre, sebbene gli Stati non abbiano smesso di spostare e aggiungere frontiere di controllo, di edificare muri e di escludere, i migranti non hanno smesso di adattare le loro strategie migratorie, nonostante l’aumento dei rischi. Infine, come analizza Ghisalberti, i migranti, anche precari e irregolari, rimodellano profondamente gli spazi: contribuiscono all’intreccio di globale e locale, al dialogo tra culture, e alla reticolarizzazione dei territori, inserendosi in vite politopiche, che si realizzano cioè su più luoghi. Beck considera i «migranti clandestini [come] gli artisti della frontiera, l’incarnazione dell’offuscamento e del mescolamento delle frontiere tra le nazioni, gli Stati, gli ordinamenti legislativi e le loro contraddizioni»4 . I margini sono inoltre “abitati” da vari attori della società civile, che intervengono in solidarietà con i migranti, nonostante la criminalizzazione di tale impegno. Rimettendo al centro dell’attenzione la persona in migrazione, ricordano i principi umanisti e di diritto che dovrebbe garantire ogni Stato liberale.

Negli articoli che compongono questo dossier, Gioacchino Campese ricorda la centralità del migrante nella Bibbia, e sottolinea il contributo della teologia contemporanea nella riflessione sulle migrazioni. Catherine Wihtol de Wenden analizza la politica migratoria europea, iscritta in una prospettiva di containment caratterizzata dall’esternalizzazione e la militarizzazione delle frontiere esterne e dalla criminalizzazione dei migranti. Julien Brachet coglie le conseguenze, in Africa, dell’internalizzazione della politica migratoria dell’UE. Alessandra Ghisalberti presenta le logiche delle migrazioni intra-africane, e l’emergere di nuovi paradigmi territoriali e spaziali prodotti dalle esperienze migratorie. Jalal Al Husseini tratta le mobilitazioni dei rifugiati palestinesi nei campi profughi della Giordania, in un contesto caratterizzato da politiche ambivalenti di integrazione ed esclusione. Il Forum approfondisce le strategie di solidarietà e di lotta per i diritti dei migranti. Più specificamente, Marco Omizzolo analizza il fenomeno del caporalato nell’agro-industria italiana, e la lotta dei sindacati di migranti. Alessia Belli presenta la sua esperienza sulle navi quarantena, descrivendo quello che la frontierizzazione dell’Europa fa sull’esistenza del migrante, e le modalità per “fare comunità”. Infine, Giulia Pizzolato spiega il ruolo svolto da un CPIA di Torino nel fornire istruzione alle madri migranti in un’ottica intersezionale.

Note

1 Cfr. «Dialoghi», 24 (2024), 93, in particolare S. Calvani, Le frontiere nella storia e nel tempo presente, pp. 34-42.

2 Citazione tradotta dal francese, tratta da: M. Agier, Incertitude urbaine et liminarité rituelle. Anthropologie des hors-lieux, in «Zainak. Cuadernos de Antropología-Etnografía», (2009), 31, pp. 215-232.

3 Il termine, formulato da Michel Foucault, descrive una forma di potere che si esercita non sui territori ma sulla vita degli individui.

4 U. Beck, Qu’est-ce que le cosmopolitisme ?, Aubier, Paris 2006, p. 284.