Cristiani ed ebrei

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Perché un Dossier dedicato al rapporto tra cristiani ed ebrei? Di fronte al riemergere di atteggiamenti antisemiti sembra utile prendere consapevolezza del cammino compiuto nelle relazioni tra gli appartenenti alle due religioni. Conoscere la storia serve non solo a purificare la memoria, riscoprendo origini comuni, ma pure a elaborare antidoti nei confronti di risorgenti contrapposizioni. La «nostra radice santa» resta permanente traccia dell’azione di Dio, che travalica i tempi del nostro “dominio” culturale e religioso, e quindi aiuto a vincere ogni forma di imperialismo, per renderci autenticamente “cattolici”.
La storia dei rapporti tra ebrei e cristiani, da epoca romana sino al Concilio Vaticano II (1962-1965), non è stata sotto il segno dell’amicizia e della comprensione reciproca. Si è sviluppato nel tempo, in area cristiana, un antigiudaismo caratterizzato da momenti drammatici: gli ebrei si trovarono ad essere minoranza mal tollerata e soggetta a gravi discriminazioni e persecuzioni, un popolo di paria. Basti solo ricordare le leggi antiebraiche emanate dall’imperatore romano e cristiano Teodosio II (438) o ciò che accadde in Spagna con l’insediamento dell’Inquisizione e la cacciata degli ebrei (1492) o l’istituzione, con la Bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum (14 luglio 1555), dei ghetti: quartieri dove tutti gli ebrei dovevano abitare, circondati da mura e con porte per l’entrata e l’uscita severamente controllate. Nel documento pontificio la decisione era motivata con la tesi secondo cui, a causa del rifiuto della persona di Cristo e la sua uccisione, gli ebrei erano stati condannati da Dio ad una schiavitù perpetua.
Sostanziava questi atteggiamenti una serie di pre-giudizi che si sono stratificati nei secoli. Il popolo ebraico non solo era colpevole di aver rifiutato Gesù, ma era responsabile in solido della sua uccisione; una responsabilità che avrebbe coinvolto anche i discendenti. Per questa ragione Dio aveva revocato l’alleanza con il suo popolo e la vera erede delle promesse era la Chiesa, il suo nuovo popolo, il nuovo Israele. La punizione di Dio comportava anche la dispersione degli ebrei dalla loro terra, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e la loro subordinazione politica negli Stati cosiddetti cristiani. Il rifiuto di Cristo come Messia si riteneva dovuto essenzialmente alla perversione intellettuale e alla malvagità morale che avevano reso gli ebrei incapaci di operare un’interpretazione corretta dell’Antico Testamento come preparazione all’avvento del Messia nella figura di Gesù. Una religione, quella di Israele, fatta di formalismi etico-giuridici e fissata sull’immagine di un Dio sadico e vendicatore.
Accanto all’antigiudaismo cristiano si è sviluppato, a partire dal diciottesimo secolo, un antisemitismo di stampo razzista – attraverso le opere di intellettuali come Erich von Treitschke, Joseph A. Gobineau, Houston S. Chamberlain – che ha preso piede in tutta Europa. In Germania l’antisemitismo divenne la legittimazione pubblica di movimenti politici sorti da una gravissima crisi economica, sociale e culturale seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale: il rancore dei ceti medi impoveriti e degli ambienti militari umiliati cercava un capro espiatorio. Si fece così strada l’assurdo sospetto che la guerra fosse stata perduta per le congiure interne degli ebrei e che il «capitalismo ebraico internazionale» fosse stato il vero artefice della sconfitta. Il nascente partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler legò le proprie fortune all’ascesa dei movimenti antisemiti. Una volta che costui ebbe conquistato il potere, l’antisemitismo divenne norma ufficiale con le leggi approvate dal Reichstag nel settembre del 1935 a Norimberga. Queste aggravarono infatti le condizioni degli ebrei privandoli della cittadinanza e impedendo loro di contrarre matrimonio con cittadini di sangue tedesco.
Con l’enciclica Mit brennender Sorge, diffusa clandestinamente in Germania nel 1937, papa Pio XI prendeva posizione contro il nazismo, ma ciò non impedì che anche in Italia Mussolini, in una riunione del Consiglio dei ministri nel settembre 1938, facesse emanare le leggi razziali che riprendevano, aggravandole, molte delle disposizioni della Germania nazista. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e il dilagare delle armate naziste in Europa, ebbe inizio lo sterminio sistematico delle comunità ebraiche nei lager, dove vennero trasferiti e uccisi con lo scopo di risolvere in maniera definitiva la «questione ebraica». Nell’evento della Shoah (catastrofe in ebraico), vera icona del male, sei milioni di ebrei vennero uccisi. Con loro zingari, omosessuali, testimoni di Geova, dissidenti politici furono messi nelle camere a gas, nei forni crematori o impiccati. Con loro anche molti religiosi che osarono prendere le loro difese: è il caso di padre Kolbe o del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer che, prima d’essere impiccato a Flossenbürg, aveva ammonito i cristiani indifferenti o complici: «Chi non grida per gli ebrei non può cantare il gregoriano».
La Shoah divenne per i cristiani più avvertiti una provocazione a ripensare l’insieme dei pregiudizi sugli ebrei. Di rilievo, a questo proposito, l’incontro che si tenne nell’agosto del 1947 nella cittadina svizzera di Seelisberg. Un centinaio di delegati cristiani redassero un documento che sintetizzava in dieci punti (I dieci punti di Seelisberg) una proposta di radicale mutamento dell’insegnamento delle Chiese su Israele. I lavori furono coordinati dallo storico ebreo Jules Isaac, che aveva perso ad Auschwitz gran parte della sua famiglia.
Si deve a Giovanni XXIII l’inserimento, nell’agenda del dibattito conciliare, della questione dei rapporti della Chiesa con gli ebrei, un tema che non era stato inserito tra le questioni proposte ai vescovi prima dell’apertura del Concilio. Tutto era cominciato con un mandato specifico al cardinal Agostino Bea, nel settembre del 1960: quello di facilitare durante la preparazione del Concilio un esame del rapporto della Chiesa con gli ebrei. Le esperienze in tempo di guerra avevano reso Giovanni XXIII sensibile alle atrocità della Shoah e alle complicità o all’indifferenza di molti cattolici. Aveva rafforzato la sua persuasione anche il colloquio in Vaticano con Jules Isaac, che gli aveva presentato un dossier comprendente I dieci punti di Seelisberg. Lo stesso Isaac aveva pubblicato, nel 1955, il volume Jésus et Israël – frutto di lunghe ricerche –, che aveva avuto larga risonanza. In esso dimostrava l’infondatezza dei giudizi sugli ebrei: che la diaspora fosse un castigo provvidenziale per la crocefissione; che al tempo di Gesù la religione fosse degenerata in un legalismo senz’anima e che gli ebrei avessero commesso un deicidio. Non esistevano perciò fatti che giustificassero l’antigiudaismo.
Molte opposizioni ebbe in Concilio la proposta di presentare un documento unicamente dedicato al popolo ebraico. Se ne parlò, infine, all’interno di Nostra aetate, la dichiarazione Sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, al numero 4. La collocazione non occultava però la novità di quanto vi si affermava a proposito dei rapporti di amicizia da instaurare con gli ebrei dopo secoli di pregiudizi, di condanne e persecuzioni, riconoscendo che essi erano eredi della promessa di Dio e della prima alleanza e che grande era il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei. Si raccomandava, inoltre, la mutua conoscenza attraverso gli studi biblici e teologici e un fraterno dialogo.
Si trattava di un testo breve, che ricevette immediatamente amplificazioni e un incremento di significati nei commentari successivi, ed è all’origine del dialogo vero e proprio a livello istituzionale, perché papa Paolo VI volle istituire la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo (1974), mentre a sua volta l’International Jewish Committee on Interreligious Consultation istituiva una Commissione per il dialogo con i cattolici. Nel 2015 la Commissione vaticana presieduta dal cardinal Kurt Koch ha presentato il documento dal titolo I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Vi si traccia la storia dei rapporti tra ebrei e cristiani nei cinquant’anni trascorsi dall’approvazione della dichiarazione Nostra aetate e vi si sottolinea lo statuto speciale del dialogo ebraico-cattolico: il cristianesimo ha radici ebraiche, le stesse che hanno dato origine all’ebraismo rabbinico postbiblico; Dio non ha mai rinnegato l’alleanza con Israele. Per questa ragione non è più sostenibile la tesi secondo la quale la Chiesa ha preso il posto di Israele come popolo eletto (teoria della sostituzione). La Chiesa cattolica continua a professare l’universalità della salvezza in Cristo e tuttavia gli ebrei hanno una loro via a Dio, pur non credendo in Gesù. «Come questo sia possibile rimane un mistero insondabile».
Ha fatto eco a questo documento la dichiarazione Tra Gerusalemme e Roma, elaborata l’anno successivo dalle tre più importanti organizzazioni religiose ebraiche. Nonostante le differenze teologiche e alcuni punti di profondo contrasto, i cattolici vengono considerati «partner, stretti alleati, amici e fratelli nella ricerca comune di un mondo migliore che possa godere pace, giustizia sociale e sicurezza». In entrambe le religioni è maturata la convinzione di rendere noti i mutamenti intervenuti nei loro rapporti, in particolare alle nuove generazioni, non limitandoli quindi ai soli specialisti, nella convinzione che, se non penetrano in profondità nel tessuto sociale, i fantasmi dell’antisemitismo possono risorgere e inquinare la coesistenza pacifica delle differenze. Se ne trova riscontro in alcuni orientamenti recenti, i quali, benché minoritari, potrebbero diventare germe di sentimenti pervasivi.
Il lungo percorso che ha portato cristiani ed ebrei dal sentirsi nemici ed estranei al riconoscersi amici e fratelli, trova nei contributi che costituiscono questo Dossier momenti di approfondimento in termini storici e teologici, con incursioni nell’attualità. Francesco Capretti recupera vicende, contenuti e recezione della dichiarazione Nostra aetate e individua i temi che non hanno ancora trovato «una giusta collocazione nella riflessione teologica», vale a dire i tre poli della triade ebraica, Torah, Popolo e Terra.
Sull’importanza (per il dialogo) delle visite degli ultimi tre papi – Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco – al Tempio Maggiore (la Sinagoga) di Roma riflette Brunetto Salvarani, che le considera eventi «impensabili prima di Nostra aetate e ora, pur se non classificabili in alcun modo come routinarie, certo più nell’ordine delle cose e di relazioni riavviate – non andrebbe mai dimenticato in ogni valutazione – dopo diciannove secoli di insegnamento del disprezzo».
D’altra parte, nella considerazione da parte cristiana del rinnovato rapporto con gli ebrei, un ruolo particolare va attribuito alla complessa ermeneutica della Lettera ai Romani di Paolo, ai versetti 9-11, che Romano Penna sviluppa dettagliatamente per concludere che per l’apostolo di Tarso «tutto Israele sarà salvato». A conferma di un Dio capace di sorprese, «da una parte sono i Gentili ad essere eletti, mentre i Giudei si pensavano oggetto esclusivo del favore divino, dall’altra parte i Giudei saranno certamente reinnestati, mentre i Gentili pensavano di essere superiori all’Israele etnico. In ogni caso l’elezione di Dio inverte le attese e i calcoli umani».
L’attenzione nei confronti della figura di Gesù è cresciuta nel tempo anche all’interno del mondo ebraico, che ha visto già nel XIX secolo crescere la consapevolezza di dover trattare i quattro Evangeli come documenti ebraici, mettendo in evidenza «contiguità e continuità» tra i contenuti della predicazione del Rabbì di Nazareth e quella dei contemporanei. È ciò che documenta Massimo Giuliani, passando in rassegna anche gli studiosi ebraici operanti dopo la Shoah (da Jules Isaac a Salomon Zeitlin, a Shalom Ben Chorim, a Nathan André Chouraqui, a Geza Vermes…): mentre cercavano nei Vangeli le radici dell’antigiudaismo, ritrovarono la profondità ebraica degli insegnamenti di Gesù.
Tra i temi aperti alla discussione (anche interna al mondo ebraico) è lo Stato di Israele nel suo configurarsi insieme come Stato ebraico e come Stato democratico. Ciò che lo rende non pienamente conforme ai parametri occidentali, come mostra Piero Stefani, sottolineando la continua oscillazione tra i due poli e la tensione irrisolta tra religione e laicità.
Chiudono il Dossier due interviste, a cura rispettivamente di Andrea Dessardo e Fabio Zavattaro. La prima al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che parla dello Stato di Israele come «inizio di redenzione», come ritorno alla terra promessa, senza dimenticare che essa è terra di Israele; con la successiva sottolineatura della necessità di risposte comuni allo sfaldarsi delle strutture che presiedevano un tempo alla trasmissione della fede religiosa, dell’importanza del dialogo interreligioso contro i conflitti innescati da motivazioni pseudoreligiose; dialogo da inventare ogni giorno a partire dalla base, perché è «nella base che si riconosce la validità del risultato».
L’altra intervista è a mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme e in precedenza custode di Terra Santa. Al centro della conversazione: le sfide alla minoranza cristiana in una terra, la Palestina, divisa e attraversata da conflitti politici e religiosi. Si tratta di continuare a operare (pur attraverso le scuole, gli ospedali, le esperienze di incontro sistematico con le altre religioni) tramite uno stile di apertura e di mediazione tra le parti, che costringa a «pensare in maniera diversa». Anche i gesti compiuti dai pontefici che hanno visitato questi territori acquistano rilevanza, non tanto sull’immediato, quanto perché richiamano «qualcosa che prima o poi sarà ripreso».