L’autodeterminazione come assoluto: eutanasia e oltre

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Il dibattito bioetico e biogiuridico sul fine vita, intenso negli anni 2017-2019, si era arrestato a inizio 2020 con lo scoppio della pandemia. È ripreso ora con la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia che però, a rigore, non parla di fine vita né di malato o di atto medico. Esso va ben al di là, perché propone di legalizzare l’omicidio del consenziente.

In modo abbastanza sorprendente è ripreso il dibattito in Italia sul fine vita, alimentato dalla campagna per la raccolta di firme per il referendum sull’eutanasia promosso dall’Associazione “Luca Coscioni”. In realtà, che il referendum riguardi a rigore l’eutanasia è una finzione o una mistificazione, come si avrà modo di sostenere più avanti; in prima battuta, però, conviene osservare come il dibattito bioetico e biogiuridico sul fine vita sia stato molto intenso negli anni 2017-2019, per arrestarsi improvvisamente – e non a caso – a inizio 2020, quando è scoppiata la pandemia da Sars-Cov-2, e riprendere con forza a metà del 2021, senza che peraltro la situazione emergenziale provocata dal Covid-19 sia stata ancora del tutto superata. Nei giorni più bui e dolorosi della prima e anche della seconda ondata di contagi, il nostro sistema sanitario è stato travolto da un’eccezionale richiesta di assistenza e cura da parte di migliaia e migliaia di pazienti, richiesta a cui non sempre riusciva a corrispondere: basti solo pensare alla mancanza di ventilatori e di posti letto in terapia intensiva riscontrata nel marzo 2020 in alcune regioni, in primo luogo la Lombardia. Ebbene, in quelle terribili settimane il grido straziante che si levava era un grido di aiuto, di non essere abbandonati, di essere curati. A leggere le numerosissime testimonianze di medici, infermieri e pazienti, ospitate da giornali e siti vari, non si chiedeva certo l’assistenza al suicidio (concetto equiparabile a quello di eutanasia), ma di rimanere in vita e di essere curati.

Improvvisamente, come se avessimo rimosso questa dolorosa, ma al contempo istruttiva, esperienza, si è ritornati a parlare di fine vita e in modo ambiguo e riduttivo, attraverso la logica semplificatoria del populismo referendario. Si invoca così una versione assolutizzata del principio di autodeterminazione, espressione di un individualismo estremo, in cui sono io a decidere della mia vita («liberi sino alla fine» è il motto dei referendari). Letta in un’altra prospettiva, tale autodeterminazione estrema sembra presentarsi essa stessa come un’ulteriore espressione di quella solitudine del morente, su cui Norbert Elias aveva scritto pagine illuminanti e che nuovamente durante la pandemia aveva manifestato il suo volto più straziante, con l’impossibilità per molti di morire con il conforto di una parola, di uno sguardo o di una carezza dei propri cari.

Il suicidio assistito di DJ Fabo e gli interventi della Corte costituzionale

Vediamo allora più da vicino i contenuti del confronto sul fine vita così come si era dipanato in epoca prepandemia. Tale confronto prendeva le mosse dalla vicenda di Fabiano Antoniani, meglio conosciuto come DJ Fabo, che, accompagnato in Svizzera da Marco Cappato, nel febbraio del 2017 aveva chiesto e ottenuto di porre termine alla propria vita attraverso il suicidio medicalmente assistito. Analizzando il caso in questione, la Corte d’assise di Milano a inizio 2018 sollevava delle riserve riguardo alla legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale sull’aiuto al suicidio; a seguire era intervenuta la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 20181. Con molta chiarezza l’ordinanza ribadiva che l’aiuto al suicidio è un reato, che come tale non può essere giustificato e legalizzato: l’art. 580 del c.p. non è quindi incompatibile con la Costituzione. Il motivo di ciò risiede fondamentalmente nel fatto che il reato di assistenza al suicidio è un presidio a tutela della vita,  specie delle persone più deboli e vulnerabili.

La Corte arriva anzi a sostenere che lo Stato ha il dovere di approntare tutte le misure affinché la vita di ogni individuo sia adeguatamente tutelata, «non quello diametralmente opposto di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire» (par. 5).

Dopo aver riconosciuto che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio continua a mantenere la sua validità, la Corte prendeva però in considerazione delle situazioni particolarissime e drammatiche, quale era quella di DJ Fabo, in cui il valore della vita esigerebbe di essere bilanciato con altri beni costituzionalmente rilevanti.

In altri termini, per la Corte si può eccezionalmente prevedere una deroga all’art. 580 c.p.; essa individuava pertanto quattro requisiti, in presenza dei quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita di un malato sarebbe giustificata. I requisiti sono i seguenti: la persona malata dev’essere affetta da una patologia irreversibile (1), la quale è fonte di sofferenze fisiche o psicologiche giudicate intollerabili dalla persona medesima (2); questa – ed è il requisito più stringente – è tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale (3); infine la persona dev’essere, nel momento in cui avanza la richiesta di aiuto al suicidio, pienamente capace di prendere delle decisioni libere e consapevoli (4).

In altra sede ho avuto modo di esprimere dei rilievi critici, di carattere bioetico, all’ordinanza della Corte2: al di là degli apprezzamenti verso la tesi principale che l’assistenza al suicidio continua a restare un reato, avanzavo delle critiche fondamentalmente su due punti. Il primo riguardava l’indebita equiparazione che la Corte faceva valere tra rifiuto e rinuncia alle cure, da un lato, e suicidio assistito, sia pure in condizioni del tutto eccezionali, dall’altro. La Corte presupponeva un’analogia, a mio parere infondata, tra le due fattispecie e traeva una conclusione di questo tipo: se nella legge 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento si riconosce la piena legittimità del rifiuto e della rinuncia alle cure, anche salvavita, perché non si potrebbe fare altrettanto riconoscendo la legittimità dell’assistenza al suicidio, limitata beninteso a quell’eccezione consistente nel darsi dei quattro requisiti? Pur fissando alcuni paletti, l’assistenza al suicidio veniva accostata in tal modo alla figura del rifiuto/rinuncia alle cure, dimenticando però che vi è una differenza moralmente significativa tra uccidere e lasciar morire3 e anche sul piano giuridico, oltre che deontologico, non è bene eliminare tale differenza.

L’indebita equiparazione portava poi – ed è il secondo punto della critica – a svalutare la possibilità del lasciar morire, che pure, specie dopo l’approvazione della legge 219, rientra nella facoltà di un malato che si trovi nelle condizioni di DJ Fabo. Il paziente cioè potrebbe rifiutare le cure, avvertite come gravose, e il medico da parte sua potrebbe sospendere il trattamento, avviando nel contempo la sedazione profonda; e tuttavia ciò rientrerebbe appunto nella sfera del lasciar morire che, a determinate condizioni, può essere considerato moralmente legittimo, a differenza invece di una condotta attiva, qual è quella del medico che fornisce aiuto al suicidio  somministrando, su richiesta del paziente, una sostanza letale. Per inciso va precisato che la Corte prendeva in considerazione l’ipotesi dell’interruzione del trattamento da parte del medico, per preferirvi, in un eccesso di valorizzazione del principio di autodeterminazione, la possibilità dell’aiuto al suicidio. In altri termini, rispetto al  criterio del morire con naturalità o, almeno, con maggiore naturalità, che potrebbe essere invocato dal paziente che così rinuncia al trattamento considerato sproporzionato, la Corte privilegiava il criterio della dignità del morire, riletto però in senso soggettivistico.

La dignità infatti viene a dipendere completamente dall’autodeterminazione del soggetto, nel senso che è la prima a derivare dalla seconda e non viceversa (par. 9).

L’ordinanza infine rinviava il giudizio sul caso in questione, prevedendo un anno di tempo nel quale il Parlamento avrebbe potuto legiferare per regolare quelle situazioni particolarissime, di cui si è detto. In assenza di un intervento del Parlamento, in data 25 settembre 2019, la Corte emanava la sentenza n. 2424, che dichiarava  l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., solo però con riferimento alla punibilità del suicidio assistito di pazienti che si trovino nelle situazioni identificate dai quattro requisiti. 

Come era prevedibile, la sentenza riproponeva nella sostanza l’impianto dell’ordinanza. Tuttavia, in modo più chiaro, nella sentenza emergevano anche, finalmente, gli elementi di differenziazione tra le due fattispecie del rifiuto/rinuncia e del suicidio assistito, sia pure in situazioni eccezionali. Se da un lato infatti, sulla base della legge 219, il rifiuto e la rinuncia al trattamento medico delineano un diritto del paziente, che il medico è tenuto a rispettare, nei limiti ovviamente di quanto previsto dall’art. 1, c. 6 (le richieste del paziente non devono essere contrarie alla legge e alla deontologia medica, il cui codice – per inciso – esclude la legittimità dell’atto  eutanasico), lo stesso non si può dire del suicidio medicalmente assistito. Quest’ultimo – secondo la sentenza 242 – non configura né un diritto soggettivo del paziente né per il medico un obbligo, giuridicamente sanzionabile. Esso piuttosto è una extrema ratio: in via del tutto eccezionale si stabilisce che non sia punibile penalmente  un medico che decida, senza esservi obbligato, di prestare la sua assistenza al suicidio in quelle situazioni estreme (e solo ed esclusivamente in esse), contraddistinte dai quattro requisiti.

La mistificazione del referendum sull’eutanasia

E veniamo ai giorni nostri, con l’iniziativa referendaria promossa in questi mesi dall’Associazione “Coscioni” e che ha già abbondantemente superato la soglia delle cinquecentomila firme, grazie anche a un’agevolazione inaspettata, ovvero la possibilità di utilizzare la firma digitale per aderire alla richiesta referendaria. Tale iniziativa riguarderebbe, a detta dei promotori, la legalizzazione dell’eutanasia. In verità ciò che in queste settimane viene spacciato con questo termine è ben altro: si tratta di un referendum che di fatto mira ad abolire il reato di omicidio del consenziente, così come previsto dall’art. 579 c.p. Beninteso l’eutanasia (e l’aiuto al suicidio, ad essa equiparabile) è qualcosa di molto problematico e la sua legalizzazione a mio parere sarebbe una sconfitta, da tanti punti di vista; ma il referendum attuale va ben oltre l’eutanasia. Questa infatti riguarda il cosiddetto fine vita e prende in considerazione la possibilità che un malato terminale, non necessariamente dipendente da un  sostegno vitale, chieda che la sua vita venga interrotta grazie all’intervento di un medico. Il quesito referendario non parla di fine vita né tanto meno di malato o di atto medico.

Se per ipotesi la Corte costituzionale approvasse il quesito e la consultazione referendaria si esprimesse a favore del «sì», ovvero della modifica radicale dell’art. 579, ci troveremmo di fronte a uno scenario inquietante: un soggetto maggiorenne che, per ipotesi, uccidesse un altro maggiorenne consenziente, anche in buona salute,  non sarebbe penalmente perseguibile. Francamente si tratta di qualcosa di una gravità inaudita, perché verrebbe meno un presidio fondamentale, forse il più importante del vivere sociale, che esige appunto di non uccidere l’altro.

A ciò si aggiunga che la Consulta si era pronunciata in merito all’art. 580 sul reato di aiuto al suicidio, e non certo al 579 sull’omicidio del consenziente. Come si è visto, la Corte non giudicava affatto come incostituzionale l’art. 580, anche se prevedeva un’eccezione, riferita ad alcune situazioni estreme. Insomma, sebbene con  argomenti non sempre convincenti, essa ha cercato di delimitare con precisione una tipologia molto particolare, evitando di “liberalizzare” l’eutanasia e tanto meno l’omicidio del consenziente, ultima ed estrema articolazione della logica assoluta dell’autodeterminazione soggettiva. Non sono un giurista, ma forse vi sono gli estremi  affinché la Corte costituzionale riconosca la non ammissibilità del referendum, considerato il caos giuridico che ne deriverebbe5.

L’accompagnamento del morente e le cure palliative

L’esito estremo a cui perviene la richiesta referendaria, che va ben al di là della giustificazione, comunque problematica, dell’eutanasia, è il risultato dell’adozione di una concezione assolutizzata dell’autodeterminazione della persona. Paradossalmente a tale principio s’ispira anche chi, invocando la propria libertà personale, rifiuta le misure di tutela della salute pubblica (vaccinazioni e green pass) per contenere il diffondersi del contagio da Sars-Cov-2.

Ora, va da sé che il principio di autodeterminazione (o forse meglio sarebbe dire di autonomia) è importante, anzi irrinunciabile; ma esso va ovviamente bilanciato con altri principi, al punto che si potrebbe più appropriatamente parlare non di autonomia assoluta, in senso individualistico, ma di autonomia relazionale. Non solo: è  necessario chiedersi con grande onestà se una forte spinta sociale e culturale, prima favorevole al suicidio assistito e all’eutanasia e poi pronta persino a sdoganare l’omicidio del consenziente, non possa spingere determinate categorie di persone molto fragili, in quanto anziane, sole, ammalate, economicamente povere, a mettere  in atto condotte che a prima vista risultano essere autonome, ma che tali in realtà non sono perché profondamente influenzate dal contesto e dalla condizione di sofferenza che stanno vivendo. Non è difficile prevedere che alcune di queste persone, abbandonate e sole, preferirebbero farsi da parte per non essere di peso alla  famiglia e alla società.

Una legislazione favorevole alla legalizzazione a vario titolo dell’aiuto al suicidio, se non dell’omicidio del consenziente, potrebbe poi scoraggiare l’impegno da parte dell’intera società a investire in quelle misure (cure palliative, hospice...) che consentono di accompagnare nelle ultime fasi della vita i pazienti che ne abbiano bisogno,  alleviandone la sofferenza. A ben vedere, questo dovrebbe essere l’impegno prioritario a cui dedicare risorse ed energie, investendo su cura e accompagnamento del malato, cure palliative, terapia del dolore, così come previsto dalla legge 38/2010. La tragedia del Covid-19 ha messo a nudo le debolezze del nostro sistema  sanitario, specie con riguardo alla sua organizzazione territoriale; è risaputo inoltre quanto carente sia la rete delle cure palliative, soprattutto al Sud. Dovremmo allora unire le forze e impegnarci per realizzare alcuni obiettivi quali: rafforzare il sistema degli hospice; diffondere una cultura dell’alleanza terapeutica medico-paziente, che  nulla ha a che vedere con l’assistenza medica al suicidio; formare medici palliativisti, con un’adeguata preparazione, anche bioetica, grazie alla quale acquisiscano consapevolezza della differenza esistente tra sedazione profonda continua nell’imminenza della morte ed eutanasia, differenza richiamata più volte dalle varie  società scientifiche di cure palliative. In assenza di un impegno esigente di questo tipo, potrebbe concretizzarsi il pericolo denunciato con grande lucidità qualche anno fa da Luciano Violante: «Tutto il tema dell’eutanasia, in un momento di forte crisi della spesa sanitaria in tutto il mondo, va affrontato con grande attenzione, se non  altro per una ragione pratica. L’eutanasia rischia di diventare la morte dei poveri che non possono curarsi, che sono soli, che sono limitati nei movimenti. Se quella possibilità entrasse nella legge, nelle regole dello Stato, la deriva discriminatoria mi parrebbe inevitabile»6.

Note

1 Si veda https://bit.ly/39fty71.

2 Cfr. A. Da Re, La falsa analogia tra rifiuto-rinuncia alle cure e suicidio medicalmente assistito. Riflessioni bioetiche sull’ordinanza della Corte costituzionale n. 207/2018, in «Medicina e morale», 2019, n. 68 (3), pp. 281-295.

3 Cfr. F. Marin, Bioetica di fine vita. La distinzione tra uccidere e lasciar morire, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.

4 Cfr. https://bit.ly/2XrvEht.

5 Secondo l’analisi di Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale, nell’intervista ad «Avvenire», 21 agosto 2021, p. 7, intitolata Quesito sbagliato.

6 L. Violante, intervento alla tavola rotonda La vita non è sola. Un confronto a più voci, in «I quaderni di Scienza e Vita», n. 13 (La vita non è sola), Siena 2014, p. 88.