Il Vangelo e la storia: il coraggio di don Riboldi

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Don Antonio Riboldi, vescovo di Acerra agli inizi degli anni Ottanta, si è distinto per il suo coraggio nel fronteggiare la criminalità organizzata e per le sue battaglie politico-sociali in un territorio altamente problematico e in un tempo particolarmente difficile.

«Un pastore, un vescovo non può guardare dalla finestra ciò che avviene, ma deve sposare completamente la causa di un uomo. Non può restare alla finestra, ma deve scendere tra la sua gente. Fa politica? No, ma si incarna con il suo popolo e la vita di Gesù è questa». Parole di don Antonio Riboldi, che spiega così il suo impegno nel sociale. Fare politica per lui, quando è profondo il collateralismo tra clero e Dc, significa salire su un treno insieme con un gruppo di bambini del Belice terremotato, terra in cui è parroco, e andare a bussare dopo dodici ore di viaggio alle porte delle istituzioni: Camera, Senato, Palazzo Chigi, e infine in Vaticano, dove Paolo VI lo accoglie con un largo sorriso e lo invita a proseguire nella lotta che ha intrapreso. La battaglia per avere riconosciuto un diritto fondamentale, quello della casa, perché nella valle siciliana devastata dal sisma del 1968, la politica progetta grandi strade e faraonici ponti, non le abitazioni che consentirebbero di smantellare i container in cui sono state “seppellite” per anni migliaia di famiglie abituate agli stenti ma condannate a un’esistenza da “ultimi degli ultimi”. In dialogo e molto spesso in conflitto con i leader dei partiti, quella di don Riboldi è la storia di un prete che è stato un soggetto politico a tutto tondo, punto di riferimento nell’arco di almeno cinquant’anni di storia repubblicana, tanto che decine di ministri e alcuni presidenti del Consiglio hanno dovuto fare i conti più volte con quel rosminiano “testardo” che, divenuto vescovo di Acerra, si “sporca” le mani nella lotta contro la camorra, così come da parroco di Santa Ninfa e di Castelvetrano, il comune della famiglia di Messina Denaro, proibisce agli inizi degli anni Settanta i funerali in chiesa dei padrini assassinati dai rivali o ammazzati durante i conflitti a fuoco. Antesignano della “Chiesa in uscita” di papa Francesco, primo prete sotto scorta ma anche isolato da larga parte del clero che nel Sud Italia si mostra ancora silente rispetto alla mafia. Ordinato vescovo tra le baracche di Santa Ninfa l’11 marzo del 1978 dall’arcivescovo di Palermo, cardinale Salvatore Pappalardo, presenti alla celebrazione Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici e altri che negli anni saranno tra i martiri dell’antimafia. «Li hanno uccisi tutti, sono rimasto solo», ripete spesso don Riboldi nei frequenti momenti di sconforto, quando si ritrova solo e nel mirino di alcuni detrattori, che gli imputano di essere ammalato di protagonismo per le ripetute apparizioni in televisione o la raffica di interviste. Amato e a volte odiato, come capita frequentemente a coloro che scrivono pagine di storia. Quella che porta la sua firma, dopo la trasferta romana con i bimbi del Belice, è datata novembre-dicembre 1982, quando alla testa degli studenti marcia su Ottaviano, il “regno” del potente boss Raffaele Cutolo, all’indomani del sequestro dell’assessore regionale Dc, Ciro Cirillo, da parte delle Brigate Rosse. Passaggio fondamentale nell’evoluzione della camorra campana, perché nel tentativo di giungere alla liberazione dell’ostaggio, che custodisce inconfessabili segreti, viene chiesto aiuto, attraverso faccendieri e agenti della polizia sotto copertura, all’organizzazione capeggiata da Cutolo, che diventa così il referente del più grande partito del Paese, la Dc. Negli anni Ottanta, il dialogo istituzioni-camorra produce effetti devastanti, perché la contropartita chiesta e concessa al boss sono gli appalti che le imprese a lui legate ottengono via via nell’ambito della Ricostruzione post-terremoto, come svariati verdetti, passati in giudicato e pronunciati da più tribunali, testimoniano. Pratica che poi diventa la norma anche con altre potenti “famiglie” di camorra che tengono in ostaggio un’intera regione. Ecco perché il coraggio di Don Riboldi e dei suoi “ragazzi” è duplice: non solo la sfida a Cutolo, folle e sanguinario, ma anche alla politica connivente con la camorra. Un’assemblea nel cortile del liceo Diaz, a due passi dalla casa del padrino, con un migliaio di studenti; poi la marcia dei diecimila tra Somma Vesuviana e Ottaviano con alla testa insieme con il vescovo di Acerra, monsignor Giuseppe Costanzo, vescovo di Nola, l’allora segretario regionale del Pci, Antonio Bassolino, Raffaele Tecce del “piccolo” Pdup e Luciano Lama, leader di una potentissima Cgil. Un primo, embrionale fronte antimafia, con dentro la Fgci, organizzazione giovanile comunista, l’Azione cattolica, le Acli, la Cisl, non la Dc che rimane alla finestra insieme con le istituzioni che all’epoca amministra: pochi gonfaloni, nessun sindaco o parlamentare sul palco. Un uomo di Chiesa, don Riboldi, divenuto quindi leader di un movimento di cui soprattutto i giovani sono gli artefici, tanto da dare vita alla più grande mobilitazione nelle scuole del Mezzogiorno dopo il Sessantotto. Assemblee e cortei un po’ dovunque, nel febbraio dell’anno successivo arrivano a Napoli centomila ragazzi, molti provenienti anche dal Nord, dove la penetrazione della mafia è cominciata da un po’. Una pagina di storia totalmente dimenticata, sotterrata a partire dagli anni Novanta, quando alcuni dei protagonisti di quella stagione, già all’epoca impegnati in politica, passano dai banchi dell’opposizione a quelli della maggioranza sull’onda di Tangentopoli. Da vescovo anticamorra a personaggio scomodo il passaggio è breve. Dilaniante per il centrosinistra, ormai al governo, la sua voce, soprattutto quando don Riboldi cerca di indicare alla politica un percorso virtuoso affinché la terra di cui è il Pastore possa finalmente incamminarsi sulla strada dello sviluppo. Non più fabbriche decotte, ad altissimo impatto ambientale, ma un polo pediatrico punto di riferimento per il resto del Sud. Una presenza ad alto valore simbolico, un nuovo inizio per un territorio che la camorra ha già cominciato ad avvelenare con decine di migliaia di fusti contenenti veleni, residui delle lavorazioni industriali effettuate nel Settentrione affidate agli emissari della camorra per lo smaltimento a basso costo e senza alcun controllo. Veleni sotterrati o incendiati nella campagna che gli antichi romani definivano “Felix” e oggi conosciuta come “Terra dei fuochi”. Un affare milionario per la criminalità proprio in anni in cui coloro che sono stati in prima linea con gli studenti e il vescovo occupano, a cominciare da Bassolino, quasi tutte le postazioni del potere politico. A don Riboldi viene però fatto credere che il “polo pediatrico” si farà, si promettono tempi rapidi e scelte inequivocabili anche sul piano della futura conformazione urbanistica dell’intera area su cui dovrà sorgere la struttura. Convegni, tra strette di mano e abbracci, delibere, che ben presto divengono carta straccia: nel 2008, al posto dell’ospedale per bambini, la Regione, governata dal centrosinistra, decide di costruire il più grande inceneritore di rifiuti mai realizzato in Europa. Scelta che appare obbligata nel tentativo di difendere un sistema di potere che intanto si è via via costituito: Napoli è sommersa dai rifiuti e il cosiddetto “rinascimento” di cui Bassolino si vanta di essere l’artefice affonda nella melma prodotta dall’immondizia putrefatta. Don Riboldi con il “suo” polo pediatrico può dunque aspettare e con lui quelle migliaia di ragazzi, divenuti adulti, che ventisei anni prima hanno lottato per cambiare il corso della storia. Ecco perché il libro che ricorda quel rosminiano “testardo”, nel centenario della nascita e a quarant’anni dalla rivolta anticamorra, ha come sottotitolo “Il coraggio tradito”. Don Riboldi, spiega il magistrato Francesco Cananzi, «aveva guardato lontano [...]. Le mafie ormai sono non solo nazionali ma globalizzate [...] La corruzione è oggi un reato-spia della presenza di mafie, specie nelle regioni del nord: per corrompere ci vuole denaro e oggi le mafie ne hanno in quantità infinita, hanno il problema di riciclarlo e lo fanno investendo in società e professionisti che possono garantire servizi a basso costo, in grado di vincere la concorrenza perché avvantaggiate dalla ricchezza illecita con la quale sono in grado di risolvere ogni problema e di offrire servizi para-leciti assolutamente concorrenziali»1 .  La lezione di don Riboldi resta essenziale per la Chiesa italiana che dovrebbe non contribuire a fare cadere nell’oblio, come ha già fatto la politica, il suo esempio e i suoi scritti, a cominciare dal documento che riuscì a far approvare dalla Conferenza episcopale campana, presieduta dal cardinale Corrado Ursi, il 29 giugno del 1982. Per amore del mio popolo non tacerò, primo atto ufficiale contro le mafie ripreso nove anni dopo a Casal di Principe da don Peppino Diana. «Un cambio di mentalità – è scritto – con la Chiesa invitata a farsi promotrice di una mobilitazione storica, più ampia, delle genti campane per sollecitare interventi adeguati sul piano regionale, dalla bonifica urbanistica (e all’epoca non c’erano ancora i veleni della camorra, nda), a forme di patrocinio gratuito per le famiglie dei detenuti». E ancora la qualificazione professionale dei minori dimessi dalle carceri per affermare, soprattutto «che – dicono i vescovi di allora – non è possibile compromesso alcuno con la camorra o situazioni di ambiguità». Ma soprattutto si accusa la politica di complicità in cambio del sostegno elettorale: «Alle autorità e alle forze politiche – incalzano i vescovi – auguriamo che la fedeltà al ruolo che esercitate e la vostra saggezza vi ispirino una politica di risanamento effettivo della Campania, in cui trovino priorità le necessità e i diritti fondamentali dell’uomo: la casa, il lavoro, i servizi sociali e l’istruzione per tutti. Il Mezzogiorno non deve marcire nell’assistenzialismo, che mortifica l’uomo e crea spazi per la violenza e per la camorra. Il vostro servizio a favore delle popolazioni, la vostra onestà e competenza, il vostro culto per la verità, la giustizia e la libertà, saranno di sprone e di sostegno nella lotta contro la camorra e alimenteranno la speranza fondata in un domani migliore e non troppo remoto. Le nostre genti ve ne saranno grate, più di quanto possa essere grata la camorra verso i disonesti uomini pubblici». Parole dirompenti per l’epoca, incredibili (termine caro a don Riboldi) e di profonda verità. Ma nel documento non manca una severa autocritica su cui varrebbe la pena interrogarsi guardando al presente. Per amore del mio popolo non tacerò non tace infatti sul ritardo di analisi e i colpevoli silenzi del clero: «Esiste una «contrapposizione stridente – è scritto – tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo». E i vescovi sottolineano come tuttavia essa abbia «inserito i suoi tentacoli nella vita sacramentale attraverso la distorsione della figura del padrino di battesimo, di cresima e di matrimonio, legando a sé creature ignare con le loro famiglie e coppie di sposi, più o meno conniventi con il loro parentado». E ancora la Conferenza episcopale segnala come la camorra pretende «di avere una sua religiosità, riuscendo a volte a ingannare oltre che fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime», talvolta con allettanti «elargizioni non disinteressate per le feste patronali e facilitazioni per ottenere, tramite i protettori politici, contribuzioni dovute o anche indebite». Timori di quarant’anni fa da archiviare ormai negli scaffali della storia? Nel percorso di normalizzazione avvenuto in questi anni rispetto al fenomeno della criminalità organizzata, sempre più considerata elemento strutturale della società italiana, c’è il rischio che anche settori della Chiesa vengano coinvolti, facendo sentire sempre più soli gli “eredi” di don Riboldi che combattono quotidianamente nei territori di frontiera, i tanti che continuano a non mollare sul fronte della lotta alla mafia organizzando momenti di riflessione e di impegno nelle loro parrocchie, lontano dai riflettori e spesso in solitudine. Quella solitudine che don Riboldi ha conosciuto durante il suo lungo cammino senza mai mollare, tenendo fede all’indicazione del libro di Isaia che volle nel suo stemma episcopale: “Aprirò nel deserto una strada”.

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Antologia

«Ricordo il primo gennaio 1960. Recandomi in una chiesa periferica di mattino presto, per dare una mano al mio coadiutore, attraversai il paese deserto, probabilmente per la festa di fine d’anno. Sennonché, fuori della chiesetta dedicata alla Madonna, trovai dei carabinieri. Augurai loro il buon anno e loro per tutta risposta mi dissero: “Mezz’ora fa, abbiamo trovato due giovani, qui fuori della chiesa, uccisi”. Era come se avessero dato uno schiaffo alla mia voglia di amore e di libertà. Quando alle ore nove la gente si raccolse nella chiesa-madre per la celebrazione eucaristica, al momento della predica diedi libero corso alla mia ira: “La mafia sta fra di voi come un dittatore, che vi tiene in servitù con un volto bonario, ossia di chi vi vuol bene; tanto che, quando incontrate i mafiosi o potenti, li salutate baciando le mani in segno di sottomissione: “Bacio le mani a vossia!”. E so che nel cuore urlate la vostra rabbia impotente: “Bacio le mani che voglio tagliare”. Non si può augurare il buon anno con due ammazzati. Uccidere è sempre quella parte di Caino che Dio non ha messo in noi. Chi uccide è un criminale. E, se abbiamo ancora la dignità della libertà, anche se per ora è difficile esercitarla, dobbiamo avere il coraggio di condannare il male. Una mafia che uccide, che ti sottomette, come fossi uno sgabello dei suoi piedi, non è degna di onore, non ci ama: è come una metastasi alla civiltà dell’uomo”. Mi ascoltarono in silenzio, ma apparentemente dissentendo da quell’aspra condanna, da quel parlare chiaro senza mezzi termini, tanto che me ne accorsi e scesi dal pulpito scuotendo la testa, con la coscienza che forse era troppo presto per prendere di petto una metastasi che andava guarita per altre vie coraggiose, capaci di coinvolgere le persone. “Alla libertà, – amava ripetere il grande Luther King – non si arriva mai da soli, ma insieme”. E il segno che non era il tempo per quelle parole, lo ebbi subito. Alla fine della Messa, recandomi in sacrestia, nessuno venne ad augurarmi buon anno. Anzi, sembrava che tutti avessero fretta di uscire dalla chiesa, che non dava più sicurezza. Soltanto un uomo di grande fede, sfiorandomi, mi disse: “Troppa fretta, Padre! Lavori sulla stessa linea, ma con la pazienza del tempo”». (A. Riboldi, Per amore del mio popolo non tacerò, pp. 16-18)

«Noi vescovi abbiamo preso in esame più volte il problema dell’assistenzialismo, diffuso soprattutto nel sud, e con molta chiarezza lo abbiamo definito dipendenza politica. Una dipendenza che crea potere; un potere che si riversa al centro, e crea dipendenza. Un circolo vizioso. Il Paese si è mai chiesto da che cosa deriva l’incapacità a gestirsi di cui il Sud viene accusato? La dipendenza politica esclude la giusta economia, toglie all’individuo ogni facoltà di gestire i propri bisogni [...] Ruolo del cittadino, e non solo nel Mezzogiorno, è di prendere coscienza della propria dignità». (A. Riboldi, Non posso tacere, p. 129)

«Era necessario un documento pastorale, che contenesse la condotta di verità e di amore agli uomini e alle donne della Campania. Assentirono tutti [i Vescovi] e fui incaricato, assieme al defunto Mons. Grimaldi di stilare quel documento che divenne storico e rappresentò un togliere la maschera alla camorra, invitando le comunità a prendere coscienza del male per liberarsene. Doveva rappresentare una linea di condotta comune a tutti. Il documento recava il titolo mutuato dal profeta Isaia “Per amore del mio popolo non tacerò”. Non mancò affatto il coraggio alla Chiesa campana. E fu come un segnale di risveglio, di voglia di voltare pagina». (A. Riboldi, Per amore del mio popolo non tacerò, pp. 22-23)

Note

1 F. Cananzi, Un coraggio meno tradito, a margine del volume di Pietro Perone “Don Riboldi 1923-2023”, in «Diritto, Giustizia, Costituzione», 5/2023.

BIBLIOGRAFIA

A. Riboldi, D. Del Rio, Il vescovo e la Piovra, Piemme, Casale Monferrato 1990.

A. Riboldi, Non posso tacere, il Sud non è l’inferno, Rusconi, Milano 1993. Id., Per amore del mio popolo non tacerò, Paoline Editoriale Libri, Milano 2003.