Democrazia e poteri

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Da diverso tempo la nostra democrazia appare affaticata, incurvata dal peso di una serie di dinamiche culturali, sociali, politiche e istituzionali che rischiano di metterne in discussione la capacità di tenuta. Nel suo complesso, e malgrado significative e non rare eccezioni, la classe politica appare sempre più autoreferenziale e sempre meno attenta alla grammatica istituzionale. L’inseguimento di un consenso sempre più emotivo, estemporaneo e instabile condiziona il dibattito pubblico, riducendolo troppo spesso a una serie di scambi stucchevoli e stizziti, dominati da una personalizzazione eccessiva e dalla progressiva perdita di rilevanza delle culture politiche, con l’almeno apparente impossibilità di dare vita a un serio confronto politico. Ogni questione viene affrontata attraverso il filtro distorcente di un reciproco discredito asfissiante, con la progressiva riduzione degli spazi per un reale scambio di vedute tra opinioni, valori, interessi legittimamente differenti. Nuovi e vecchi egoismi, nazionali e locali, trovano invece sempre più spazio, in un contesto in cui il senso delle regole pare sempre meno patrimonio condiviso e anche il valore del Bene comune sembra essersi logorato. E a tutto ciò corrisponde, in una spirale che si avvolge su se stessa, una sempre più accentuata disillusione e disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, che si manifesta in un astensionismo sistematico, ma anche nello sbriciolamento delle identità collettive e nella crescente incapacità di elaborazione politica da parte della società civile. Non si tratta di un problema solo italiano. Sono numerosi, infatti, gli studi che individuano nelle democrazie di tutto il mondo fattori di crisi sostanzialmente simili, con nodi problematici e e processi di trasformazioni comuni. Non pochi studiosi, inoltre, sottolineano il fatto che un numero crescente di democrazie sta scivolando, o è già scivolato in anni recenti, verso l’autocrazia. Secondo uno dei più recenti rapporti che periodicamente vengono stilati da realtà specializzate, si può ormai affermare che solo il 28% della popolazione mondiale vive in un paese pienamente democratico. Dieci anni fa, lo stesso gruppo di studio aveva indicato la percentuale del 64%. Per trovare un dato simile a quello attuale occorre risalire al 1986, a prima, cioè, della caduta del Muro. Si tratta, senza dubbio, di valutazioni non semplici da produrre e non da tutti condivise. Senza addentrarci nelle controversie metodologiche circa i criteri e gli strumenti di misura con cui esse vengono elaborate, non sembra comunque opportuno sottovalutare l’urgenza della questione. Ciò su cui, al di là degli allarmismi, si può senz’altro convenire è un avvertimento: quando iniziamo a considerare la democrazia come una conquista ottenuta una volta per tutte, come qualcosa di scontato, ne mettiamo in discussione la sopravvivenza o, quantomeno, il corretto funzionamento. La democrazia si nutre di partecipazione, di confronto libero e informato, di senso delle regole e di apertura all’interesse generale. Postula il riconoscimento delle istituzioni come casa comune e non come palazzo distante o addirittura opposto ai cittadini. Allo stesso tempo, per mantenersi in salute, la democrazia necessita che i cittadini siano consapevoli dei suoi limiti intrinseci, e siano disposti ad accettarne le fatiche. La democrazia, insomma, ha bisogno di essere custodita, e ha bisogno di essere costantemente rigenerata: in ogni epoca ogni generazione è chiamata, potremmo dire, a far “rinascere” la democrazia, se vuole che essa rimanga all’altezza del compito di interpretare e affrontare le questioni del proprio tempo. Custodire non significa però congelare. Inutile coltivare la nostalgia per forme e modalità di partecipazione, di organizzazione del potere e di svolgimento del confronto politico che sono ormai tramontate e non si potranno riesumare (e di cui, quando erano sistema, venivano sottolineati con forza gli aspetti degenerativi: partitocrazia, ideologizzazione del dibattito, inefficienza dei processi decisionali...). La storia non torna indietro. Questo vale per i partiti, che non torneranno a essere gli stessi che abbiamo conosciuto nella seconda metà del Novecento, ma non solo: vale per il sistema rappresentativo nel suo complesso, vale per le forme e gli strumenti della dialettica politica, così come per i processi di costruzione, segmentazione e manipolazione dell’opinione pubblica. Lo stesso dobbiamo pensare per gli strumenti e le modalità della comunicazione, per i meccanismi di creazione (e dissoluzione) del consenso e per le dinamiche che presiedono alla composizione e scomposizione delle identità collettive. Il contesto tecnologico, sociale, culturale ed economico in cui viviamo pone nuove sfide e, al contempo, offre una serie di opportunità, di strumenti e spazi inediti, che impongono di ripensare anche il modo con cui si articolano i processi democratici. Il sistema politico si riorganizza attorno a nuovi strumenti, a nuove forme di aggregazione e a nuovi canali di rappresentazione. Si tratta allora di cercare di capire meglio i processi di trasformazione in atto, per comprendere se e come sia possibile coniugarli con le esigenze della democrazia. Occorre comprendere quali meccanismi e quali forze concorrono a determinare l’agenda politica e lo spazio che alle varie questioni è concesso nel dibattito pubblico; in che modo i cambiamenti in atto negli strumenti di comunicazione influenzano i processi di decisione e fino a che punto sia possibile esercitare un controllo democratico su di essi. E ancora, domandarsi quali canali è possibile attivare o valorizzare per dare vita a nuove forme di partecipazione dal basso. Chiedersi quanto la ricerca dell’efficienza e della rapidità della decisione politica debba sopravanzare l’esigenza della mediazione e della partecipazione consapevole; in che misura la rappresentanza dell’interesse generale possa conciliarsi con la promozione di una moltitudine di interessi parcellizzati e in contrasto tra loro, e quali soggetti nel contesto attuale potranno farsi carico delle funzioni tradizionalmente svolte dai grandi partiti di massa. Seguendo tutte queste piste, il Dossier che presentiamo si propone di dare al lettore alcune chiavi di lettura per comprendere le trasformazioni in atto nelle democrazie contemporanee e, proprio per questo, si offre anche, in continuità con le riflessioni sviluppate nei precedenti numeri del 2023, come materiale di riflessione in vista della prossima Settimana sociale dei Cattolici in Italia, che si terrà a Trieste nel luglio 2024 e metterà a tema proprio “il cuore della democrazia”. Il punto di partenza non poteva che essere quello di uno sguardo in prospettiva storica, affidata a Paolo Pombeni, per inquadrare i processi attraverso cui il sistema rappresentativo si è strutturato e modificato nel tempo, e cogliere così gli elementi di tensione e complessità che sono sempre stati presenti nelle esperienze democratiche moderne, fin dall’origine. Le forme attraverso cui i sistemi costituzionali hanno tentato di dare rappresentanza al corpo politico nel suo insieme e non (solo) nei suoi interessi parziali, in effetti, si sono sempre dovute misurare con la tensione esistente tra il piano teorico, sulla base del quale quelle forme erano legittimate, e il piano della realtà. È altrettanto vero, però, che negli ultimi tempi sta prendendo sempre più spazio un modo di interpretare il compito e la natura stessa della rappresentanza politica che ne riduce l’essenza a mera espressione, anzi addirittura a enfatizzazione di limitati mondi di appartenenza e di interessi talmente parziali da risultare tra loro inconciliabili, a discapito della ricerca dell’interesse generale e della costruzione di un sentire comune. Tutte le componenti del processo democratico sembrano scivolare in questa direzione: le classi dirigenti, a partire dalle leadership politiche, l’universo mediatico, tanto nei suoi organi tradizionali quanto nei suoi nuovi strumenti, il sistema economico, con le sue spinte e contraddizioni, la società civile, sempre più sfarinata, malgrado i tanti fermenti di una rinnovata partecipazione presenti in essa. Il saggio di Mattia Zulianello mette ad esempio in evidenza in che misura la possibilità di raggiungere punti di mediazione nell’ambito di un contesto pluralista, obiettivo che richiederebbe la presenza di una leadership democratica autorevole, risulti condizionato dall’emergere di spinte tecnocratiche e populiste, le quali, pur tra loro differenti, risultano simili dal punto di vista della propensione al superamento delle tradizionali forme di intermediazione. Quelle stesse forme che sono sfidate anche dalla pressione generata dalla transizione digitale. La «piattaformizzazione dell’opinione pubblica», spiega Giovanni Boccia Artieri, costituisce un fenomeno che richiede un’attenta vigilanza critica, che sappia però mantenersi lontana da ogni forma di «determinismo tecnologico»: come è sempre stato, la democrazia richiede, per poter funzionare, cittadini capaci di coniugare senso critico e apertura dialogica. Che le dinamiche della comunicazione abbiano un ruolo centrale nel determinare i cambiamenti e le difficoltà con cui si devono misurare le democrazie contemporanee, del resto, emerge con altrettanta evidenza se si prendono in considerazione i meccanismi attraverso i quali le forze politiche e mondo dei media concorrono a dare vita all’agenda pubblica. Anche qui, e più che mai, ci fa comprendere Marco Iasevoli nel suo saggio, le dinamiche in atto invocano un surplus di vigilanza critica e di responsabilità da parte di tutti i soggetti del processo democratico: attori politici, mondo dell’informazione, cittadini. Caterina Lupieri e Paolo Labinaz ci mostrano del resto come l’interazione tra pubblico e decisori politici sia oggi profondamente mutata rispetto al Novecento (che ha visto l’affermazione delle democrazie) e somigli a un gioco di inseguimenti, in cui le “credenze” acritiche tendono a essere sempre più rilevanti e facilmente strumentalizzabili, ma in cui d’altra parte il potere del pubblico e la possibilità di influenzare “dal basso” i decisori diventa più consistente e rivela, forse, forme nuove di partecipazione. Il consueto forum conclusivo, infine, prova a scandagliare, attraverso la testimonianza di tre persone impegnate in differenti ambiti, l’esistenza e la praticabilità di esperienze di partecipazione dal basso come preziose risorse di rigenerazione democratica. Esperienze preziose, che lasciano intravedere un futuro.