La Chiesa è, nel tempo, memoria di Gesù e quindi luogo nel quale si vive l’esperienza della fede. Ma è anche luogo della corresponsabilità, alla cui origine stanno i carismi, che nessuna autorità può predeterminare ma solo riconoscere. L’autorità nella Chiesa è soggetta alla Parola di Dio e alla libera creatività dello Spirito. In questo trova fondamento il percorso sinodale chiesto da papa Francesco a tutte le Chiese.
L’ attuale discussione intorno alle prospettive di una promozione della sinodalità nella Chiesa non di rado si annoda intorno all’asserto, spesso assunto a una sorta di dogma indiscutibile: La Chiesa non è una democrazia. Eppure è facile controbattere: Ma neppure è un’autocrazia! Per quanto il papato abbia sfiorato qualche volta, nel corso della storia, il rischio di trasformarsi in un potere autocratico, questo in realtà non è mai avvenuto. Non ha avuto affatto questo significato la definizione dell’infallibilità del papa emanata dal Concilio Vaticano I. Quando il cancelliere tedesco Otto von Bismarck denunciò il pericolo che i vescovi venissero ridotti a puri e semplici «funzionari ... di un sovrano perfettamente assoluto, più di qualsiasi altro monarca assoluto del mondo», l’episcopato tedesco, e il papa stesso, deplorarono come deviante questa interpretazione. Già durante il concilio, il relatore della commissione De fide, Federico Maria Zinelli, aveva dichiarato che «nessuno sano di mente ammetterebbe che il papa o un concilio potrebbero distruggere l’episcopato e gli altri diritti divini determinati nella Chiesa»1 . Sarà poi il Concilio Vaticano II a dichiarare che la Chiesa in realtà è «governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (Lumen gentium, n. 8).
Autorità e libertà nella Chiesa
Papa e vescovi sono i protagonisti dei concili ecumenici, nei quali si vota e si delibera in base a criteri di maggioranza e minoranza, come avviene nei parlamenti della moderna democrazia: la sola differenza è che non si giunge a deliberare se non quando si è raccolto un amplissimo consenso, che comprenda anche quello del papa, perché i concili non sono puramente degli organi legislativi, bensì la testimonianza della fede e dell’unità della Chiesa.
È vero che una figura uguale a quella della collegialità episcopale non si trova ripetuta nelle istanze inferiori del regime pastorale, ma ciò che accade al vertice è significativo della natura della Chiesa, la quale non è fondata sull’autorità di un capo, ma sulla comunione, animata dallo Spirito Santo, dei credenti. La Chiesa, infatti, si costituisce intorno all’evento della comunicazione della parola della fede. L’apostolo Giovanni lo descrive con efficacia: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,3). Ciò che tiene insieme i fedeli nella Chiesa, non è quindi la loro sottomissione a un’autorità, per quanto questa ne sia una delle condizioni che restano da determinare, bensì la grazia della comunione infusa dallo Spirito Santo nei credenti.
La Gaudium et spes al n. 41 scrive che il «Vangelo annunzia e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal peccato e onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione». La libertà, infatti, è il valore; l’autorità è lo strumento che assicura lo scorrere della vita comunitaria nell’unità, nella giustizia e nella pace.
L’autorità nella Chiesa gode di un suo valore aggiunto, perché si fonda sul detto del Signore: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16). Con tutto ciò non la si può pensare come fosse, tout court, l’autorità stessa di Dio. L’autorità di Dio si impone previamente alla coscienza di ogni uomo, in quanto «legge scritta da Dio dentro al cuore, il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità»: «la dignità stessa dell’uomo» si fonda sul primato della coscienza (Gaudium et spes, n. 16). Un’autorità, quindi, che si pretendesse superiore alla coscienza, verrebbe a negare la dignità della persona umana. Al cristiano, inoltre, Dio parla nella memoria di Gesù, della fede dei profeti, della quale egli si è nutrito, e di quella degli apostoli, che ne hanno reso testimonianza, che per ispirazione divina è consegnata nelle Sacre Scritture. Il Magistero della Chiesa, «la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo», ha il compito di «interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa». Tale Magistero, però, «non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola» (Dei verbum, n. 10). Su questo sfondo si muovono i rapporti fra l’autorità e la libertà dei fedeli ed è possibile disegnare i limiti dell’autorità e riconoscere gli ampi spazi aperti alla libera iniziativa dei fedeli.
Tempo di crisi dell’autorità
In molti paesi del mondo si è ormai affermato il sistema democratico di governo della società, grazie al quale è meglio garantito il rispetto della dignità della persona umana e la libertà dei cittadini. È il frutto della plurisecolare gestazione di un assetto della società, nel quale dalla preminenza del collettivo, autocraticamente governato da un capo, sono emersi e si sono imposti i valori della persona umana nella sua singolarità. Si è affermata così una esaltante cultura della libertà, fino a raggiungere ai nostri giorni l’estremo di un imperante individualismo, al punto che l’uomo di oggi sembra voler vivere in totale “incondizionatezza”.
Nella Chiesa si è verificato, invece, un processo di progressiva crescita dell’esercizio dell’autorità e di crescente riduzione degli spazi della libertà e della responsabilità dei fedeli, che nell’antica tradizione erano vasti. Dopo la Rivoluzione francese, quanto più si è voluta demolire l’autorità del papa sul piano della politica internazionale, tanto più si è messa in moto una concentrazione del potere della Chiesa nel primato papale. È stata la reazione alla diffusa volontà politica di assoggettare le Chiese locali al potere dello Stato, a cominciare dalla Costituzione civile del Clero, decretata in Francia un anno dopo lo scoppio della rivoluzione, fino all’affermarsi del giurisdizionalismo imperante nel corso dell’Ottocento. I papi hanno inteso difendere a denti stretti l’unità e la cattolicità della Chiesa, ma erano anche convinti di dover rimediare alla deriva di un mondo, nel quale «non solo la santissima nostra Religione, ma anche l’umana società è in modo miserando sconvolta e tribolata»2 .
Una delle ultime affermazioni sul ruolo dell’autorità nella Chiesa è leggibile nella Vehementer nos di Pio X del 1906: «La Chiesa è [...] una società di uomini in seno alla quale si trovano dei capi che hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e per giudicare. Ne risulta che la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone [...] Solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità [...] la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori». Non c’è da stupirsi che l’eredità di questa fase storica, scontrandosi con la cultura libertaria oggi dominante, abbia messo in fibrillazione la rete relazionale di cui vive la Chiesa, mettendo in crisi, in molti fedeli, il senso della loro appartenenza e favorendo in altri l’appiattirsi nell’inazione e la perdita del loro senso di responsabilità nei confronti della vita e della missione della comunità.
Lungo il medesimo percorso storico, però, si è svolto anche un vivace processo di rinnovamento. Gli sviluppi della riflessione teologica, più attenta alle fonti e alle tradizioni più antiche, il fiorire di una spiritualità dei laici e la crescita del loro attivismo nella società (vedi la nascita dell’Azione cattolica) hanno iniettato nell’organismo vitale della Chiesa dei fermenti che, gradualmente, hanno minato la prepotenza dei paradigmi giuridici nei quali si era andati interpretando la stessa natura della Chiesa.
Il Concilio Vaticano II, nella Lumen gentium, segna la svolta decisiva verso il riconoscimento di «una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (n. 32), attribuendo a tutto il popolo di Dio, che «ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio», la funzione messianica di Cristo stesso, che lo ha «assunto ad essere strumento della redenzione di tutti» (n. 9; nei paragrafi dal 10 al 12 ne illustra il carattere sacerdotale e profetico). Così il Concilio ha costruito la base dogmatica sulla quale «quella piena, consapevole e attiva partecipazione» (Sacrosanctum concilium, n. 14), che si vuole caratterizzi la liturgia rinnovata, dovrà trasbordare dallo spazio rituale ed espandersi dovunque la Chiesa viva e operi.
Dopo una lunga fase di rallentamento della spinta conciliare, provocato dal timore di dannose fughe in avanti, che non sono mancate, papa Francesco si è assunto, fin dall’inizio del suo pontificato (Evangelii gaudium), il compito di rilanciare la dinamica conciliare. In occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015) egli dichiarava che «proprio il cammino della sinodalità», cioè della partecipazione attiva di tutti, «è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Sinodalità
Consultando i vocabolari, è interessante osservare come della parola sinodale, sinodalità, venga registrato esclusivamente il significato di qualcosa che riguarda gli istituti giuridici del Sinodo diocesano e del Sinodo dei vescovi. Noi oggi, invece, parliamo di cammino sinodale usando i termini in una gamma di significati molto più ampia. Si pensa ad un carattere sinodale che dovrebbe investire nella Chiesa ogni processo decisionale riguardante la vita della comunità e la sua missione, dalla progettazione all’attuazione. Il cammino della Chiesa, che si forma intorno all’evento della comunicazione della fede e del dono della comunione, chiede di essere un cammino comune, in una costante interazione fra l’autorità dei pastori e l’apporto dei fedeli.
Uno scoglio contro il quale non di rado cozza il discorso della sinodalità è il sospetto che il voler sollevare la questione dipenda da un risveglio di ambizioni e si risolva in una inaccettabile lotta di potere. È vero il contrario. Inserendo l’autorità dei pastori in una dinamica sinodale, se ne accresce l’autorevolezza, perché solo così il vescovo e il parroco si ritrovano solidali con la loro comunità e non sono costretti a prendere da soli ogni decisione sulla sua vita, anche su cose per le quali il sacramento dell’ordine non ha loro conferito alcun particolare carisma. Solo il corpo complessivo dei fedeli è dotato di tutti i carismi necessari per la vita e la missione della Chiesa.
La maturazione di una coscienza sinodale dovrebbe partire proprio dalla riflessione sui carismi. Il primo diffuso pregiudizio da superare è che il problema consista nel risolvere l’antitesi tra l’autorità e i carismi, come se l’autorità non fosse essa stessa un carisma. Il secondo è che ci siano cristiani carismatici e cristiani non carismatici. In realtà non c’è fede né esiste al mondo un credente in Cristo, se non grazie ai doni dello Spirito Santo: «Nessuno può dire: “Gesù è Signore!” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). Poiché la fede è un atto libero e del tutto personale, lo Spirito, nel suscitarla, determina il suo dono assumendo le inclinazioni naturali del soggetto, le sue esperienze vissute, le competenze di cui è dotato per operare nel mondo e così plasma la personalità del credente. Non c’è cristiano che non sia carismatico.
Anche papa Benedetto XVI ha rilevato il carattere carismatico delle esperienze e delle competenze del cristiano, affermando che i fedeli laici «grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze», dovrebbero cooperare con il Magistero non solo in quanto esecutori del suo insegnamento, ma anche come «collaboratori preziosi dei pastori nella sua formulazione»3 . Solo intrecciando il loro discernimento con quello dei fedeli, il papa e i vescovi possono far sì che il loro Magistero sia dotato di tutta la ricchezza dei carismi di cui gode la Chiesa.
Un motivo di debolezza dell’attuale prassi sinodale è dovuto al fatto che le istanze sinodali previste nell’attuale ordinamento non attribuiscono ai membri dei diversi consigli alcun potere decisionale, ma solo un ruolo consultivo. Il cardinale Francesco Coccopalmerio intitolava maliziosamente un suo recente libretto: Sinodalità ecclesiale “A responsabilità limitata”. Egli lamenta che nella situazione attuale si offre ai fedeli la possibilità di camminare insieme ai loro pastori, ma solo fino al momento che conta veramente, quello della decisione. Una volta giunti alla soglia di una decisione da prendere, il vescovo e il parroco si staccano dai fedeli e procedono da soli. I fedeli restano in attesa e si devono disporre a mettere in esecuzione la decisione che verrà presa al di fuori della riunione consiliare. Non stupisce che, da quando i diversi consigli diocesani e parrocchiali sono stati istituiti, l’interesse dei fedeli alla loro attività sia andato affievolendosi sempre più.
Il cardinale canonista suggerisce anche una soluzione del problema, adottabile anche stante l’attuale ordinamento. Si proceda, egli dice, come si fa nel concilio. I padri conciliari, infatti, pur essendo essi collegialmente soggetti di autorità sulla Chiesa universale, non concludono i loro dibattiti fino a che non pervengono a un diffuso consenso, che sfiori l’unanimità e che comprenda necessariamente anche il consenso del papa. Potrebbe essere, secondo Coccopalmerio, un buon metodo da adottare anche nei consigli diocesani e parrocchiali: che si rinunci, pastore e fedeli insieme, a prendere una decisione fino a quando non si sia raggiunto un comune consenso. Solo se fossero in gioco (cosa che ben raramente accade), l’autenticità della fede e la disciplina universale dei sacramenti, il carisma del sacramento dell’ordine si imporrebbe nella sua “incondizionatezza”. Per le questioni del normale scorrere della vita della comunità, chi ha esperienza di vita parrocchiale sa benissimo che una decisione presa da chi ha autorità, senza che sia diffusamente condivisa, è destinata al fallimento e serve solo a isolare il pastore dal suo gregge.
Al di là, infine, della escogitazione di nuove procedure per incrementare i valori della sinodalità, la Chiesa ha bisogno di sviluppare l’attitudine a un reale e concreto riconoscimento dei carismi dei fedeli. Il Concilio precisa che nelle questioni sociali, nelle quali la missione della Chiesa è coinvolta «i laici hanno il posto di primo piano» e li invita ad operare illuminati dalla fede «con la loro competenza nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo» (Lumen gentium, n. 36). Appare ovvio allora che, quando nella Chiesa si affrontano i problemi pastorali della famiglia e del suo ruolo nella società, le questioni politiche insorgenti negli organi legislativi della società civile, o i problemi morali propri di particolari discipline scientifiche, siano i fedeli che ne hanno i carismi, manifesti nelle loro esperienze vissute e nelle loro specifiche competenze, a dover pesare con particolare autorevolezza nel discernimento comune. A conclusione di questa riflessione basterà rileggere le parole dei padri del Concilio Vaticano II: «I sacri pastori, infatti, sanno benissimo [...] di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo». È loro compito nei confronti dei fedeli «riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune» (Lumen gentium, n. 30).
Note
1 Per conoscere con maggiori dettagli questa vicenda si veda O. Rousseau, La vraie valeur de l’épiscopat dans l’Église d’après d’importants documents de 1875, in Y.M. Congar e B.D. Dupuy (a cura di), L’épiscopat et l’Église universelle, Cerf, Paris 1962, pp. 730.729.
2 Pio IX, Bolla Aeterni Patris, 29 giugno 1868.
3 Benedetto XVI, Discorso in occasione del 50° anniversario dell’enciclica «Mater et magistra», 16 maggio 2011.