Cristiani e politica La logica evangelica seme per il bene comune

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Una riflessione, a partire da competenze e sensibilità diverse, su come il Vangelo possa oggi illuminare la politica, sugli insegnamenti delle encicliche sociali di papa Francesco e la loro assoluta attualità, sullo stile cristiano in politica.

 

Finito il tempo dei collateralismi (e degli integrismi), in che modo il Vangelo può illuminare oggi le scelte politiche?

Nicoletti. Nei tempi di grande trasformazione occorre tornare alle radici. Nelle società occidentali, molti credenti, smarriti dai cambiamenti in atto, si attardano a pensare e a ripensare le forme di rapporto tra la fede e la politica che hanno caratterizzato la storia vissuta da loro e cioè un pezzo di vita, più o meno lungo, che si è snodato entro gli ultimi 100 anni della storia. Inutile dire che in questa storia ci sono straordinarie testimonianze che hanno ancora moltissimo da dirci e che sarebbe assurdo e colpevole dimenticare. Ma dobbiamo anche cercare di capire la novità della situazione attuale e provare a ripensare il rapporto tra fede e politica nelle forme che questo tempo richiede. Nessuno sa dove stiamo andando. E allora non c’è che riandare alle radici. Che cosa ha da dire il Vangelo prima che “alla” politica, “sulla” politica? Che cosa significa l’annuncio da parte di Gesù non semplicemente di una vita personale o comunitaria, ma di un “regno”, il Regno dei cieli? È chiaro che questo Regno non è di questo mondo, ossia non si afferma attraverso gli strumenti dei regni umani (la violenza, il dominio, il denaro) e quindi non si tratta di strumentalizzare la “regalità” di Cristo per imporre al mondo, magari con la forza della coercizione, questo o quel valore, questa o quella forma di vita. Sono cose che, ahimè, abbiamo già visto e non ci hanno portato da nessuna parte. Il Regno è un dono che passa attraverso la conversione dei cuori e una pratica di servizio e di liberazione. Ma questa ispirazione ha una dimensione ordinamentale? Produce solo questa o quella singola azione a favore degli altri oppure è anche in grado di disegnare nelle menti e nei cuori dei credenti delle architetture di società? Che ovviamente sono storiche, contingenti, plurali, contaminate da altre ispirazioni, ma che sono, appunto, “cornici”, “ordinamenti”, “orizzonti”? La sfida di oggi è riprendere questo tema del Regno che implica una potente teologia della storia (oggi, purtroppo, latitante e ve ne sarebbe invece bisogno straordinario rispetto ai catastrofismi emergenti e agli ottimismi banalizzanti) e che tenga assieme l’alterità del Regno rispetto ai regni terreni, ma anche la forza architettonica della sua ispirazione, capace di far lievitare la cultura e l’azione umana verso un’idea di società.

Carfora. Un punto di riferimento importante è il detto di Gesù riportato in Mc 12,17, Mt 22,21, Lc 20,24, e che è presente anche in testi apocrifi come il Vangelo di Tommaso, a proposito di ciò che va tributato a Cesare e di ciò che va tributato a Dio. Questo detto può essere interpretato come un principio di distinzione tra ciò che riguarda la polis e ciò che riguarda Dio, nel senso del rifiuto di ogni forma di teocrazia e del riconoscimento della laicità della politica. Il Vangelo può e deve illuminare le scelte politiche, ma nel pieno rispetto della laicità. Storicamente, la fine del collateralismo significa anche, e forse soprattutto, la fine di ogni forma di costantinismo, ossia di ogni alleanza che prevede un rapporto di reciprocità dare-avere tra il mondo della politica e la Chiesa, e comporta l’abbandono di ogni forma di intransigentismo palese o mascherato. La traduzione più efficace di questo modello di relazione Vangelo-politica, diverso dal costantinismo e dall’intransigentismo, si trova espressa in un testo del II secolo, l’A Diogneto, in cui si afferma che i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per come vestono, né per cosa mangiano, né per dove abitano, ma, uguali a tutti gli altri, sono portatori di una carica di paradossalità, capace di far fermentare la realtà, dove l’accento non sta nella capacità dei cristiani di farlo, ma nel fatto che sia la pasta tutta a crescere, senza che il lievito si possa distinguere dal resto. Nulla di più lontano, dunque, da forme, vecchie o nuove che siano, di “militanza” cristiana.

Aggiungerei che la paradossalità della sequela evangelica è la cifra dell’autenticità di uno stare da credenti nel mondo “sotto” il Vangelo e può costituire il metro di giudizio dei comportamenti. Non bisogna trascurare il fatto che i comportamenti sono in larga misura politici. Un passo di Lorenzo Milani, che si trova nella Lettera dalla montagna, definisce in maniera potente il rapporto tra Vangelo e politica. Scrive don Milani: «Sommo disonore se potranno dire di noi che, con tutte le pretese di rivelazione che abbiamo, non sappiamo poi neanche di dove veniamo e dove andiamo, e quale è la gerarchia dei valori, e quale è il bene e quale il male, e a chi appartengono le polle d’acqua che sgorgano nel prato di un ricco in un paesino di poveri».

Gitto. Il Vangelo può illuminare ancora oggi le scelte politiche nella misura in cui aiuta a rimettere la speranza in circolo e l’umanità al centro. Le persone che Gesù incontra non sono perfette, sono segnate da dolori, malattie, incertezze e fallimenti: eppure sono persone che, nella loro semplicità, si lasciano trasformare dall’annuncio di Cristo, rivoluzionando le proprie vite e dando vita alla speranza, attraverso il cambiamento che Gesù compie nella loro esistenza. Sono gli ultimi i protagonisti del messaggio rivoluzionario di Cristo; il Vangelo è una grande storia di liberazione che dice tanto a tutti noi ancora oggi, e in particolar modo potrebbe essere modello per chi è chiamato a fare scelte politiche. Il tempo di oggi è tempo segnato da grandi e nuove povertà, che pongono i governanti di fronte a scelte nuove. Ci sono strade tutte da esplorare che richiedono necessariamente un superamento del “si è sempre fatto così”, mettendo davanti agli interessi i bisogni della gente del paese reale. Il Vangelo da questo punto di vista può continuare ad essere un modello a cui guardare, se gli permettiamo di vivere ancora oggi attraverso la nostra testimonianza.

Nelle encicliche sociali di papa Francesco (Laudato si' e Fratelli tutti), la cura del Creato – che si traduce nella proposta di un’ecologia integrale – e l’universalismo – che è l’altro nome di una solidarietà senza frontiere, di nazionalità, etnia, religione... – sono le priorità a cui un cristiano non si può sottrarre.

Eppure, non soltanto in Europa, il vento sembra soffiare in tutt’altra direzione. Di fronte al disastro climatico e alle disumane politiche anti-migratorie, come si manifesta il dovere di resistenza dei cristiani?

Nicoletti. Queste priorità devono essere non solo annunciate, ma inserite dentro un orizzonte capace di pensarle in modo fedele alla loro ispirazione, ma anche sostenibile da parte delle comunità umane. Prima di tutto occorre riscoprire le tradizioni cristiane nella loro autenticità: sul piano ecologico, l’attivismo sfrenato e ossessivo dello sfruttamento contemporaneo delle risorse è una degenerazione della teologia della creazione che inserisce l’opera umana sempre in un radicale rispetto della natura, del tempo, della dignità delle persone; sul piano delle migrazioni, quello cristiano è un messaggio radicalmente antirazzista per ragioni teologiche e ontologiche e da sempre universalista. L’insegnamento della Chiesa ha sempre sostenuto con forza la destinazione universale dei beni della Terra e il diritto alla migrazione come un diritto naturale. È un messaggio scomodo e complicato da gestire, ma incontrovertibile. La prima resistenza deve essere allora sul piano del pensiero, un piano su cui, anche nella comunità cristiana, si è troppo poco investito pensando che la formazione sociale e politica fosse offrire una spolverata di rimasticature dottrinali di terza mano e non il frutto di una severa disciplina di studio e di amore delle fonti. E poi c’è il piano dell’azione. Non sono tempi facili, ma a leggere il Vangelo non lo erano neanche quelli di Gesù. Sotto i nostri occhi, distratti o forse complici, si è prodotta negli ultimi decenni una spaventosa divaricazione di risorse economiche e culturali all’interno dei paesi e tra i paesi del mondo e nel momento della crisi (la guerra, l’inflazione, il cambiamento climatico), banalmente, chi ha di più cerca di mantenere quanto ha acquisito. La forza redistributiva e ordinamentale dei poteri pubblici appare ridicola e al più le persone di buona volontà cercano di mettere qui e lì qualche pezza alle situazioni più tragiche. Ma, ripeto, occorrerebbe fare appello a tutte le risorse spirituali non solo per resistere e criticare, ma per creare e costruire un po’ più di giustizia.

Carfora. In epoche come questa, in cui si alzano barriere in difesa di identità presunte da preservare, di egoismi nazionalistici, di privilegi da conservare a tutti costi, di negazionismo ostentato, il dovere di resistere si manifesta come esercizio di parresia a oltranza: si tratta di vincere la tentazione dell’afasia, la paura, la disillusione. Bisogna avere il coraggio di andare «in direzione ostinata e contraria» (F. De André), ma soprattutto di esercitare lucidamente il pensiero e comprendere cosa consente al vento di soffiare nella direzione sbagliata: una voragine di ignoranza collettiva che permette di proporre con successo il falso come vero. Resistere, significa, oggi, esercitare la “misericordia culturale” nei confronti di masse di individui che seguono il mainstream. Collocarsi, dunque, per quanto più è possibile, nei crocevia educativi: insegnare alle nuove generazioni a sottrarsi al pensiero malsano rappresenta la più improrogabile delle azioni.

Gitto. Scegliendo in maniera continua, coraggiosa e determinata la comunità. Scegliere oggi la comunità, come vulnus della vita pubblica e della cura, è l’atto di resistenza cui siamo chiamati, per pensare e costruire insieme un presente e un futuro migliore, in un tempo particolarmente attraversato da molteplici tensioni che invece vanno nella direzione della lacerazione, della separazione tra le parti. Lo stile che ci suggerisce papa Francesco è molto lontano dall’essere quello delle rivendicazioni, ma piuttosto è maturato nella condivisione di una casa comune e di domande comuni, che interrogano tutto il genere umano, indipendentemente dalla religione professata.

Sono tante le comunità che si intrecciano nelle nostre vite, grazie alle tante relazioni di cui siamo protagonisti: la famiglia, la parrocchia, la società, la città in cui viviamo. Ma le viviamo davvero come comunità, cioè come spazi in cui ognuno trova il suo posto per contribuire al bene collettivo? La linea sottile di demarcazione tra ciò che è comunità e ciò che non lo è, è la fraternità, inteso da papa Francesco come paradigma e modus vivendi da assumere e da raccontare anche come una scelta estremamente rivoluzionaria. Un cambio di prospettiva che – lungi dal voler riassumere il gioco di relazioni sociali in maniera semplicistica, ignorandone la complessità – ci invita a fare pace con la complessità delle storie di ognuno, a partire dalle nostre. Abbiamo tutti bisogno dell’altro, e in questo bisogno dell’altro si nasconde la nostra salvezza nel pensarci inevitabilmente con l’altro.

Altra sfida di oggi è quella di far parlare le comunità tra di loro, metterle in comunicazione, creando comunità capaci di essere generative perché lavorano insieme e tutte verso un unico obiettivo. Sarà interessante capire in che modo gli esiti del Sinodo porteranno – attraverso una possibile riconversione delle strutture della Chiesa – anche a un’apertura maggiore al territorio, potenziando il dialogo fecondo con le comunità ecclesiali. La posta in gioco, anche da questo punto, è alta: sono le domande delle persone, la ricerca di senso e di bene, tutte da accogliere con lo stile di chi si mette in cammino accanto al compagno di viaggio. Solo così saremo capaci di offrire nuova speranza al mondo.

Quali sono, secondo voi, gli elementi irrinunciabili di uno stile cristiano in politica?

Nicoletti. Lo stile di Dio. L’amore per l’umanità, sua creatura, e per la sua libertà, dono di Dio, che fa l’uomo e la donna simili a Dio, libero per eccellenza. Dio governa il mondo rispettando la libertà umana anche là dove questa porta il peccato nella storia e mette in croce il suo unico figlio. Perché senza libertà non c’è amore. E Dio vuole instaurare un rapporto di amore con noi e non un rapporto di dominio. Questo amore per le donne e gli uomini in carne e ossa e questo rispetto della libertà – come ci ha insegnato Rosmini – dovrebbero essere lo stile di chi vuole contribuire a costruire un ordine di pace e di giustizia. E si può fare questo solo se ci anima la speranza e non la perenne lamentazione.

Gitto. Credibilità, ascolto e speranza. Sono questi, dal mio punto di vista, gli ingredienti irrinunciabili da cui si dovrebbe riconoscere l’operato di un cristiano che sceglie di mettersi al servizio in politica. A proposito di credibilità, mi tornano spesso in mente le parole del beato Livatino: «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma credibili». Credibilità è la capacità di mantenersi fedeli a una chiamata specifica – in questo caso a impegnarsi a livello politico nelle diverse forme in cui questo servizio possa configurarsi –, e fedeli alle scelte compiute nella propria unità spirituale: essere credibili è mantenere tutti gli aspetti della vita di ciascuno di noi, uniti, non scissi. Tenere uno sguardo globale sulla realtà per poterla custodire e portarla verso il futuro.

Ma la credibilità è legata anche alla capacità di ognuno nel fare costante esercizio di ascolto e dialogo. Come potrà essere considerato credibile qualcuno che non ha mai ascoltato voci diverse dalla propria? Nella società multiculturale e plurale che caratterizza particolarmente il nostro tempo, è imprescindibile immaginare questo ascolto pensandolo come attivatore di percorsi di dialogo. Qualcosa che già grandi politici, come Giorgio La Pira, fecero, pensando al proprio servizio come a un servizio di tutti, per tutti, con tutti. Servono persone che mettano insieme, che facciano il prezioso lavoro di chi cuce, con la pazienza e la precisione dei sarti. Infine, ritorno sul tema della speranza, altro elemento irrinunciabile di uno stile cristiano in politica, e capacità di “capire nel presente dov’è che si nascondono indizi di futuro” – come ricordava Paola Bignardi ai giovani riuniti a Frascati nel corso del Modulo formativo “Pensati insieme”.

Quindi, credibilità, ascolto e speranza: sono questi i desiderata per la classe politica che sogniamo, fatta di persone appassionate di umanità, costruttrici di futuro, sinceramente disposte in cammino sulla strada dalla parte degli ultimi.

Carfora. Laudato si’ e Fratelli tutti rappresentano una notevole svolta nella scelta dei temi oggetto di una riflessione del magistero, una riflessione tanto più temuta e osteggiata quanto più se ne è vista la grande portata di laicità e di critica: non che i papi non avessero trattato in passato di temi sociali: esiste un magistero, dalla fine dell’Ottocento, sui temi sociali, tanto da aver dato vita alla cosiddetta Dottrina sociale della Chiesa, ma è l’impostazione scelta che presenta caratteri di novità: non super partes, ma schierati. In questa dimensione va individuato l’irrinunciabile, nello stare in politica, da credenti. L’irrinunciabile è lo stare in ogni caso dalla parte degli esseri umani, dalla parte degli ultimi e dei perdenti, senza compromessi. È stare dall’altra parte rispetto a un ordine mondiale che subordina gli uomini al sistema, economico in primis. Irrinunciabile è proteggere e custodire la vita, non nei proclami o nei decaloghi, ma quella di ogni singolo. Uno stile cristiano in politica non può avallare discriminazioni di sorta, neanche se ammantate da presunta difesa di valori: in nome dei valori, infatti, si sono fatte le persecuzioni nella storia. Non può giustificare nessun commercio di morte, nessuna realpolitik. Una politica cristianamente ispirata non può che essere quella delle beatitudini e beato chi sa e chi può – usando ancora le parole di Fabrizio De André – «raccogliere in bocca il punto di vista di Dio».