Vangelo e politica

di 

Declinato in vario modo dai tempi del Concilio, il rapporto tra Vangelo e politica è fra i temi più dibattuti nel mondo cattolico, un evergreen che ha fatto scorrere i classici fiumi di inchiostro, suscitato interpretazioni contrastanti e nuovi interrogativi, più stringenti di ogni risposta. Ed è giusto che sia così se come diceva Karl Rahner l’incarnazione è la logica del cristianesimo: cambiano i tempi e il Vangelo chiede di essere “incarnato”, non per obbedire alle mode del momento, ma perché questa è anche la logica del Regno annunciato in parabole da Gesù di Nazaret, il tesoro da cui lo scriba «estrae cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Come si pone, dunque, nell’attuale momento storico il rapporto tra Vangelo e politica? E che cosa cambia nel modo di intendere la presenza e le scelte dei cristiani in politica?

Ora che in molti paesi europei i cristiani fanno l’esperienza della diaspora, dell’esodo da un mondo ancora non del tutto secolarizzato a un altro in cui i segni e i simboli della cristianità sopravvivono come elementi identitari, svuotati di ogni contenuto religioso, quali nuovi paradigmi consentono di affrontare i nodi del rapporto tra fede e storia? E come superare il vicolo cieco, l’impasse o l’incomunicabilità a cui si è ridotto il confronto tra una parte consistente del mondo cattolico e un’ideologia neoliberale che esalta i cosiddetti diritti individuali, a discapito di quelli sociali?

Come dimostra la storia recente in Europa e in America, la pretesa di dedurre dal Vangelo un programma politico o un “manifesto di valori” non è mai tramontata e torna a sedurre periodicamente minoranze più o meno rilevanti e i nostalgici della cristianità. Pretesa votata al fallimento poiché il Vangelo non è un prontuario di soluzioni passepartout e ancor meno un catalogo di morale. 

Allora forse più utile è tornare alla radice per riflettere su ciò che costituisce il nucleo di una politica che si lascia interrogare dalla buona novella di Gesù di Nazaret, e di uno stile cristiano in politica. Stile è parola ambigua, porta con sé i rischi dell’estetismo e del formalismo, fino agli eccessi di uno spiritualismo disincarnato, fuori dal mondo e dalla storia. Parola inflazionata, confusa con la moda o le mode e ora con i consigli e le ingiunzioni dei cosiddetti influencer che spopolano su Instagram e TikTok. Guardata a lungo con sospetto, la categoria dello stile è tornata, però, al centro della ricerca teologica e di un’antropologia cristiana che rifugge da ogni dualismo, di corpo e anima, forma e contenuto, privilegiando l’unità della persona, perché – diceva Pascal – «l’homme passe infiniment l’homme»1 , «l’uomo supera infinitamente l’uomo» e non è riducibile ai suoi atti o alle sue colpe. Ma c’è di più. Secondo Christoph Theobald, che ha reintrodotto in maniera convincente questa categoria nel dibattito teologico, «l’approccio stilistico ci permette di non ridurre il cristianesimo al suo insegnamento dottrinale, ma di onorare l’insieme della vita cristiana in tutte le sue espressioni, singolari e plurali, relazionali e sociopolitiche»2 .

La chiave di questa piccola rivoluzione ermeneutica è nella definizione che Maurice Merleau-Ponty dà dello stile di un’opera d’arte: «emblema di una maniera di abitare il mondo»3 . Così inteso, lo stile non è un dato immobile e immutabile, non riguarda soltanto la forma dell’agire, non è un fatto esteriore o, peggio, strumentale. È qualcosa di più, un ethos, comportamento pratico che nasce dall’adesione profonda a un ideale di vita, a un desiderio spirituale passato al vaglio della coscienza: una categoria dinamica, parente stretta di ciò che i greci chiamavano éxis e i latini habitus. «Una maniera di abitare il mondo», di renderlo più ospitale, fraterno, libero: ecco il nocciolo di uno stile cristiano in politica (e non solo).

Il punto di partenza del nostro dossier è la figura storica di Gesù di Nazaret, interpretata non poche volte anche in chiave politica: maestro itinerante, annunciatore del Regno, ebreo marginale, zelota... Un profeta che capovolge le categorie tradizionali della “politica” e dell’economia, con la logica paradossale delle beatitudini. Gesù, parabola vivente del Regno «che, nella sua carne, esprime il paradosso dell’umano e del divino, non più separati e nemmeno confusi», scrive Lidia Maggi. Gesù, parola straniante e spiazzante, «che mostra l’inedito di Dio, capovolgendo il nostro immaginario religioso». Ma qual è lo stile di Gesù?

«Se c’è una cosa che appare molto chiara nel racconto evangelico», scrive Romano Penna, «è la libertà di Gesù, una libertà non teorizzata ma praticata». E che si manifesta per esempio «nei confronti del Sabato, o nei confronti delle norme di purità che non permettevano di stare a contatto con un pagano». Una «maniera di abitare il mondo» nella libertà dei figli di Dio.

Sull’esempio di Gesù, anche i Padri della Chiesa, a cominciare da Ambrogio, Basilio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, ci indicano una maniera di abitare il mondo, schierandosi senza mezzi termini dalla parte degli oppressi, di cui la figura biblica di Nabot è l’emblema. La loro, ricorda Piero Pisarra, è «una catechesi sulla povertà e sul dovere di soccorrere i poveri», nel segno di una concretezza evangelica che si fa anche testimonianza politica.

Al centro del dibattito si situa la riflessione di Giuseppe Lorizio su una categoria teologico-politica tornata improvvisamente nell’America di Trump e in altri paesi e che orienta lo stile “apocalittico” di alcune minoranze vocianti. Parliamo del katéchon, termine con il quale l’autore della Seconda lettera ai Tessalonicesi designa una realtà o una persona che “trattiene” o, meglio, impedisce l’avvento dell’anticristo, prima della seconda venuta del Signore (2Ts 2,5-10). Identificata ora con lo Stato sovrano e l’Impero, ora con l’uomo forte di turno, questa misteriosa figura è stata riscoperta da ideologi che nei sotterranei del mito o della religiosità tradizionale trovano ispirazione per le proprie battaglie. Ed essa merita di essere valutata criticamente.

Il dossier si conclude, con il contributo di Franco Miano, sottolineando il valore e il senso dell’idea di fraternità, nella linea delle indicazioni della Fratelli tutti, per un incontro tra Vangelo e politica, che integra e offre prospettiva alle idee di libertà e di uguaglianza e nella consapevolezza che la fraternità non è un dato scontato. Si tratta piuttosto di una realtà continuamente da promuovere sul modello del Buon samaritano, un modello che ci suggerisce una modalità nuova di relazione tra amore e politica, tra dimensioni personali e pubbliche, tra particolare e universale. Vengono così ripresi e discussi ulteriormente i temi posti all’attenzione attraverso il Forum (con i contributi di Anna Carfora, Emanuela Gitto e Michele Nicoletti) che apre il dossier.

Note

1 B. Pascal, Pensieri, 164; ed. Brunschvicg, p. 434.

2 C. Theobald, Le christianisme comme style, «Revue d’éthique et de théologie morale», Cerf, Paris, 2008, 251, p. 236.

3 Vedi M. Merleau-Ponty, Signes, Gallimard, Paris 1960, pp. 65-95.